Il 13 agosto scorso il governo indiano ha dichiarato l’intenzione di espellere dal Paese 40mila rifugiati di etnia rohingya e religione musulmana: la notizia è passata pressoché inosservata sui media italiani. Cito l’episodio perché accaduto poco prima che venisse diffuso il messaggio di Francesco per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018. Un testo che, come purtroppo accaduto in precedenti occasioni, è diventato spunto per schermaglie politiche nostrane di basso profilo, dimenticando l’orizzonte globale del magistero del Papa.
La vicenda dei rohingya, che i lettori di questo giornale conoscono bene, è emblematica della condizione tremenda di numerose popolazioni oggi nel mondo. A partire dagli anni Novanta, a seguito delle persecuzioni subìte in Myanmar, migliaia e migliaia di rohingya sono fuggiti cercando fortuna – invano – nei territorio vicini, a cominciare da Bangladesh e India. Non credo sia arbitrario immaginare che quando il Papa, nel suo documento, esorti gli Stati a incrementare e semplificare la concessione di visti umanitari, stia pensando a quella e molte altre situazioni simili che, purtroppo, si registrano oggi nel mondo.
Per comprendere adeguatamente il testo del Messaggio, occorre partire dalla considerazione introduttiva: «La triste situazione di tanti migranti e rifugiati che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dai disastri naturali e dalla povertà», per la quale Francesco dice di provare «speciale preoccupazione», non è un fatto pur importante e drammatico di carattere congiunturale, ma «un "segno dei tempi"». In altre parole, un fenomeno che marca, ovunque nel mondo, in maniera inequivocabile l’era presente. Pertanto, anche i riferimenti al contesto italiano, che pure si possono individuare nelle parole del Papa, vanno collocati in uno scenario di ampio respiro, senza il quale il pericolo di strumentalizzazione diventa fatalmente molto alto.
Una prima considerazione, solo all’apparenza banale, è che non esiste Stato che possa chiamarsi fuori da questa emergenza globale. Prendiamo il caso del Camerun, uno dei non molti Paesi africani che, dall’indipendenza a oggi, non ha conosciuto guerre. A partire dal 2009, suo malgrado, a causa degli attacchi di Boko Haram in Nigeria (dove sono state uccise non meno di 20mila persone), si è dovuto misurare con il dramma dei profughi dal martoriato Paese confinante. All’inizio dell’anno ho avuto occasione di visitare il campo profughi di Minawao, non lontano dal confine tra l’Estremo Nord del Camerun e la Nigeria. Ci vivono oltre 60mila persone. Tante, senza dubbio. Eppure poche, se consideriamo zone dove la situazione è, se possibile, ancor più incandescente.
Il campo profughi di Bidibidi, nel Nord dell’Uganda, al confine con il Sud Sudan, ospita oltre 250mila persone. Nell’arco del 2016, l’Uganda ha accolto quasi 490mila profughi provenienti, oltre che dal più giovane Stato africano, dall’area dei Grandi Laghi (Repubblica Democratica del Congo e Burundi). Nello stesso periodo sulle coste dell’Europa sono arrivate in totale 362 mila persone (poco più di 160mila in Italia). In altre parole, l’anno scorso ci sono stati più profughi che hanno cercato rifugio nel solo Uganda di quanti si siano diretti in alcuni dei Paesi ricchi dell’Europa nell’arco di un intero anno. Altro che «invasione» del Vecchio Continente...
Dietro le fredde cifre c’è una realtà complessa, quindi, che spesso (volutamente) alcuni, sempre troppi, dimenticano. Un’altra cruda, amara verità è che i sei Paesi più ricchi del mondo ospitano solamente il 9 per cento dei rifugiati mentre, come documenta un recente rapporto di Amnesty International, in dieci Paesi (nessuno dei quali europeo) trova posto il 56% del totale dei rifugiati su scala mondiale.
Un’ultima considerazione. Quando il Papa chiede di «accogliere, proteggere, promuovere e integrare» migranti e rifugiati non sta elencando una serie di "desiderata" di stampo buonista. La tentazione di respingere con le maniere forti gli indesiderati è un virus (ahimè contagioso) che tocca molti Paesi, inclusi alcuni che siamo soliti chiamare evoluti e civili. È di due mesi fa la notizia che in Australia - per molti giovani europei l’Eldorado dei sogni - si è concluso un accordo extragiudiziale in virtù del quale il governo locale dovrà versare quasi 50 milioni di euro a profughi e richiedenti asilo protagonisti di una class action dopo aver subito abusi di varia natura in un’isola del Pacifico in cui erano stati detenuti tra il 2012 e il 2014.
Il testo di Francesco, dunque, è sì un documento "politico", ma ispirato a una visione alta e ampia della politica, la sola politica può, per citare papa Bergoglio, «rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza». In presenza di drammi di tale portata, chiudere gli occhi e cercare di lucrare polemicamente e strumentalmente, dalle parole del Papa, un qualche dividendo di natura "politica" (con la "p" del tutto minuscola) o anche solo mediatica, appare un giochino ben misero e miope.