I solerti funzionari della Casa Bianca si sono affrettati a metterci una pezza. Solito «malinteso», colpa dei giornalisti, il presidente è stato citato fuori contesto. Eppure stavolta la gaffe – se così vogliamo chiamarla – è stata vista e sentita dal mondo intero, in diretta. A una precisa domanda di una brava collega della Nbc che gli chiedeva, al termine della conferenza stampa congiunta con il premier Fumio Kishida a Tokyo, se gli Usa sarebbero intervenuti militarmente in caso Taiwan venisse aggredita dalla Cina, Joe Biden ha risposto chiaro e tondo, come mai aveva fatto un suo predecessore: «Sì, certo. È l’impegno che abbiamo assunto». Altro che malinteso. Più chiaro di così.
E allora, perché il mondo trema? A parte la Cina, che ha il diritto di criticare questo ennesimo “processo alle intenzioni”, l’Occidente finalmente riunito dovrebbe essere soddisfatto e rassicurato che gli Usa, abbandonando una volta per tutte la cosiddetta “ambiguità strategica”, siano usciti allo scoperto e abbiano fissato in diretta planetaria la famosa “linea rossa” (pare che parte della conferenza stampa, compresa quella di cui parliamo, sia stata trasmessa anche dalla Cctv, la tv di Stato cinese). Difficile, ora, capire se la cosa avrebbe funzionato anche con la Russia: ma i cinesi – popolo saggio, pragmatico e storicamente non certo bellicoso – aldilà delle dure reazioni ufficiali, il messaggio dovrebbero recepirlo.
La forza di un messaggio, tuttavia, non dipende solo dal suo contenuto, ma anche da chi lo invia. Ed è su questo che occorre riflettere. Perché se è chiaro chi sia al comando effettivo della Russia e soprattutto della Cina (anche se negli ultimi mesi Xi Jinping ha subìto critiche, la leadership del partito non è certo in discussione), qualche dubbio su chi “comandi” davvero negli Stati Uniti c’è. E non parliamo delle solite lobby del petrolio (e del gas), delle armi, dell’alta finanza, ma di persone fisiche. Persone di cui Biden si è voluto – o dovuto – circondare e che ne guiderebbero, e non da oggi, i passi. A Foggy Bottom il quartiere dove vive la “nomenclatura” di Washington, si citano sempre più stesso le cosiddette “Erinni” (le “Furie” dell’antica Roma, creature mitologiche che impersonano la vendetta): Victoria Nuckland, attuale sottosegretario di Stato, quella che nel 2014 mandò a quel paese (per usare un eufemismo) la signora Merkel e l’intera Ue a proposito dello “Stream 2” («che se lo scordino, quei rubinetti non si apriranno mai»); Avril Haynes, già dirigente della Cia e attuale capo dei servizi segreti interni, prima donna ad aver ricoperto cariche direttive in entrambe le organizzazioni; e Fiona Hills, attuale consigliere speciale del presidente, fluente in russo e cinese. E forse va aggiunta, fresca di nomina, la giovane ma determinata Bridget Brink, appena nominata nuovo ambasciatore Usa a Kiev, dopo essere stata a lungo in Georgia, ai tempi della crisi dell’Ossezia. Non è un caso, evidentemente. Come non è un caso che, dopo oltre un anno di sede vacante, gli Usa non siano ancora riusciti a nominare un ambasciatore a Delhi, punto debole della neonata alleanza strategica dell’indo- pacifico (leggi Quad). Michael Garcetti, ex sindaco di Los Angeles, proposto da Biden, deve ancora ottenere il nulla osta del Senato, bloccato ufficialmente dal sospetto di una molestia sessuale ma in realtà inviso ad almeno due delle sopracitate “Erinni”.
La questione non è di poco conto, perché gli Usa si trovano in una fase storica delicata e a loro poco congeniale: quella di dover convivere con una potenza emergente, con la quale va, prima o poi, trovato un modus vivendi. Possibilmente senza scatenare l’Apocalisse. E un presidente ondivago, insicuro, costretto a essere costantemente corretto e “interpretato” non è il massimo. A meno che tutto ciò, come qualcuno ritiene, non avvenga per caso. E che oltre a coloro che lavorano per lo scontro frontale, ci sia anche qualcuno che invece lavora per la pace. Biden in questo viaggio ha stuzzicato e bacchettato spesso la Cina, ribadendo più volte che la “lezione” che l’Occidente sta impartendo a Putin rappresenta un chiaro segnale per Pechino, ma si è anche affrettato, subito dopo la (presunta) gaffe su Taiwan, ad annunciare che Washington sta valutando la riduzione e/o abolizione di alcuni dazi nei confronti dei prodotti cinesi, misure, ha precisato, «non certo imposte dalla nostra amministrazione». Alla fine, potrebbe essere che il tiepido accoglimento delle sue iniziative in campo economico (il nuovo partenariato commerciale, al quale hanno aderito sì 12 Paesi, ma ciascuno con i suoi marcati distinguo) e strategico (ancora una volta il Quad, la cosiddetta “Nato asiatica”, non è riuscita a decollare, per il rifiuto dell’India di condannare la Russia) rappresentino un fatto positivo, che evita, in questo momento «buio e pericoloso», come l’ha definito lo stesso Biden, la nascita di nuovi blocchi stile guerra fredda, e che invece sia proprio la sua (presunta) gaffe su Taiwan a restare nella storia.