«I bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta» scriveva Albert Camus. Eppure tutte le volte che questo accade noi ci sentiamo tirati in campo da una forza misteriosa che ci trascende. Pare che quelli affogati ieri l’altro al largo della costa libica abbiano lottato a lungo prima di cedere. Anche chi non sapeva nuotare, presumibilmente quasi tutti, avrà cercato in ogni modo di sopravvivere, magari sognando di potersi trasformare in una medusa capace di sfidare la tempesta. Nel delfino che salta felice sulla schiuma. In un uccello pronto a prendere il volo. Ma le onde del Mediterraneo, sebbene non altissime, sono state sufficienti a travolgerli: con la rigorosa intransigenza che le contraddistingue, hanno eseguito il loro compito secolare.
E così abbiamo già registrato la morte di un bambino al giorno dall’inizio dell’anno, secondo le più recenti stime dell’Unicef. È solo l’inizio, lo sappiamo bene, di quello che potrebbe accadere. A Taormina, davanti allo stesso antico mare che continua ad inghiottire tanti disperati, dove l’uomo ha imparato a leggere, scrivere e pregare, in uno scenario al tempo stesso splendido e crudele, come la Donna che sorge dalle acque di cui scrisse Giacomo Leopardi quando volle raffigurare la potenza indifferente degli elementi naturali, da stamattina si affacceranno i timonieri del pianeta impegnati a dettare gli articoli dei codici internazionali che dovranno stabilire le regole da seguire, indicando i cartelli segnaletici, le linee guida, i criteri cui attenerci.
Per capire il sentimento che noi semplici cittadini proviamo in questo momento critico di fronte ai vertici istituzionali riuniti a convegno nella bella città siciliana, dobbiamo pensare al volto austero del Papa, fotografato accanto al presidente degli Stati Uniti in visita ufficiale in Vaticano: raramente l’avevamo visto così accigliato, tristemente consapevole, come se stesse elaborando anche per noi il lutto della tragedia marina appena annunciata, in stretta successione rispetto all’attentato di Manchester. Come non condividere, credenti e non credenti, la sua ansia, la sua trepidazione, la sua inquietudine, per le sorti di noi tutti? Come non assumere il medesimo atteggiamento sapendo quanto grossa sia la posta in gioco?
Dopodiché dobbiamo entrare nella sfera operativa. Prendere posizione. Esporci. Avere il coraggio di affrontare il dissenso. Provare a dire come dovremmo fare per evitare il massacro quotidiano cui stiamo assistendo. In che modo contrapporci alla distruzione delle radici che la scomparsa di tanti piccoli esseri rappresenta?
Sarebbe bello se ognuno di questi capi di Stato si lasciasse illuminare dai grandi spiriti della sua terra: Donald Trump da Ralph Waldo Emerson, Angela Merkel da Friedrich Hölderlin, Emmanuel Macron da Stendhal, Theresa May da Robert Louis Stevenson, Justine Trudeau da Alice Munro, Shinzo Abe da Kenzaburo Oe, Paolo Gentiloni da Alessandro Manzoni.
Ma forse questo desiderio è impossibile da esaudire. Potremmo limitarci a chiedere ai sette leader quello che Dag Hammarskjold, premio Nobel per la Pace nel 1961, segretario generale dell’Onu, nonché uomo di forte carica spirituale, auspicava dovesse essere il primo compito del politico: andare oltre l’illusione della scelta individuale, superare l’atrofia della cabina di comando, lasciandosi toccare dalla vera esperienza, senza credere di poter risolvere tutto da soli. Allora, sì, quei leader potrebbero fare delle scoperte nuove come lui prefigurava: «Quando qualcuno, di fronte a un’importante decisione, cerca la tua mano, ecco, un barlume d'oro nel grigiore, la prova di tutto ciò che non avevi osato sperare».