Secondo il presidente Biden non siamo mai stati così vicini a un accordo per fermare la guerra a Gaza come ora. Frase invero sentita già molte volte in questi lunghi tragici mesi di sangue. E del resto, essere pessimisti, quando si parla di pace in Medio Oriente, è una scelta fin troppo facile, dato che infinite volte le illusioni di arrivare a fermare le violenze sono naufragate fra veti incrociati, irrigidimenti su dettagli, provocazioni ad arte.
E anche questa volta il rischio è quello che gli sforzi dei negoziatori regionali e internazionali riunitisi a Doha per un nuovo round di colloqui di pace si infranga sulle rigidità simmetriche delle leadership di Israele e Hamas, vanificando lo sforzo generoso del presidente Biden, intenzionato a uscire dalla Casa Bianca con un grande successo internazionale, e di Egitto e Qatar, attori fondamentali nelle trattative.
Da un lato, infatti, sono ben note le resistenze del premier israeliano Bibi Netanyahu a fermare il conflitto, dato che solo la guerra lo mantiene al potere. E peggio ancora si comportano i suoi ministri di ultradestra, l’estremismo razzista e xenofobo dei quali è sempre più manifesto. Dall’altro lato, la scelta di Hamas di nominare quale nuovo capo politico, dopo l’assassinio per mano israeliana di Ismail Haniyeh, il capo militare Yahya Sinwar irrigidisce ancor più la posizione di questo movimento, dato che è chiara la sua riluttanza a ogni accordo con Tel Aviv.
Il rischio, insomma, è che le speranze di pace naufraghino attorno alle ben note questioni: numero dei palestinesi rilasciati (ovviamente lo scontro è su chi debba essere rilasciato) e simultaneità del rilascio degli ostaggi ancora vivi e ritiro totale o parziale delle forze israeliane.
L’impressione tuttavia è che vi sia un crescendo di pressioni sempre più forti per superare questi scogli, che non vengono solo da Onu, Occidente e Paesi regionali. Quanto può giocare a favore della pace è anche la presa di coscienza di come questo conflitto stia corrodendo entrambi i contendenti.
I costi pagati dal campo palestinese sono più evidenti: decine di migliaia di morti, fra cui moltissime donne e bambini, un’intera popolazione in preda alla carestia, privata di ogni diritto primario, con ora il rischio del dilagare di epidemie devastanti. A cui si aggiunge la perdita di credibilità dell’Autorità nazionale palestinese, la cui residua autorevolezza sembra del tutto irrilevante in questa fase. Ma anche Israele ha pagato e sta pagando un prezzo sempre più esoso: oltre ai morti del 7 ottobre, oltre agli ostaggi e ai tanti soldati morti e feriti in questi mesi, oltre ai costi economici vi è – ancora più grave – il rischio che la democrazia israeliana venga corrosa dall’interno dal fanatismo ultranazionalista e religioso che spinge frange della società dello Stato ebraico ad azioni criminali e inaccettabili, come le continue violenze contro la popolazione palestinese, a cui si aggiungono sovente quelle contro le comunità cristiane. È consolatorio che lo stesso presidente israeliano Herzog abbia stigmatizzato il recente attacco di coloni contro un villaggio palestinese, usando il termine di “pogrom”, una parola dal significato duro come pietre per il popolo ebraico. Ma ciò non bilancia i silenzi e le ambiguità del vergognoso governo Netanyahu.
Arrivare a un accordo è quindi esigenza ormai indifferibile, percepita da un numero sempre maggiore di attori in campo. Lo stesso Iran, convitato di pietra di cui si attendeva la reazione dopo la provocazione israeliana del già ricordato assassinio di Haniyeh a Teheran, sembra ora attendere i risultati di questi negoziati. Anche perché forse il regime iraniano sembra comprendere che procrastinare la vendetta fa pagare a Israele costi ancora maggiori di un attacco stesso. E permette a Teheran di guadagnare in termini diplomatici, scommettendo di poter passare all’incasso in caso di vittoria di Kamala Harris alle ormai prossime elezioni presidenziali statunitensi.
Insomma, i prossimi giorni ci diranno se Israele e Hamas avranno il coraggio della pace e se la comunità internazionale avrà la forza per imporla ai loro due riluttanti leader politici. Non c’è del resto altro da fare dinanzi alle sofferenze di due popoli che rischiano di perdere la loro stessa anima sull’altare dello scontro a ogni costo.
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