«Parte oggi una nuova era per i palestinesi». Chi l’ha detto? Quando e dove? Khaled Meshal, leader politico di Hamas, nel 2007 alla Mecca, dopo l’accordo politico con al-Fatah sponsorizzato dall’Arabia Saudita. Cinque anni fa, dunque. Cinque anni di divisioni e scontri armati tra i due maggiori gruppi palestinesi, arroccati in due simil-Stati fieramente nemici: Hamas nella Striscia di Gaza, al-Fatah in Cisgiordania. Ora i palestinesi festeggiano con parole analoghe un altro accordo, quello raggiunto a Doha da Meshal con Abu Mazen, sponsor questa volta non un re ma un emiro, quello del Qatar. Il patto, che sarà ufficializzato il 18 febbraio al Cairo, prevede un governo "tecnico" che porti tutti i palestinesi a nuove elezioni politiche entro maggio o giugno. Primo ministro sarà Abu Mazen, non si sa quanto felice di un incarico a termine che rischia di bruciarlo: lui avrebbe voluto in quel posto l’economista Salam Fayyad, amato in Occidente ma indigesto ad Hamas. Sarà vera gloria? Visti i precedenti, l’ottimismo scarseggia. È anche vero, però, che il 2007 somiglia poco a questo 2011-2012 in cui il Medio Oriente è stato sconvolto da fermenti inediti, esaltanti e inquietanti. Dittature lunghissime sono cadute in poche settimane (Tunisia, Egitto, Libia), altre sprofondano nel sangue (Siria), alleanze di vecchia data (Siria e Iran, Libano e Siria) mostrano crepe profonde. Nostri alleati storici come l’Arabia Saudita vanno a sparare in Bahrein su chi chiede più democrazia; regimi fino a ieri sospetti di integralismo, come quello della Turchia, fanno da modello a milioni di arabi stanchi del ricatto fondamentalista. Cambiano moltissime cose, insomma, e il primo sospetto è che Hamas e al-Fatah si acconcino a un matrimonio d’interesse (perché qui di amore ce n’è poco) in primo luogo per non essere travolti dagli eventi. E poi ci sono le convenienze. Gaza è un disastro, Hamas la controlla, ma non sa risollevarla. Colpa del blocco di Israele? Certo, ma soprattutto dell’ostinazione disastrosa di Hamas nel perseguire un conflitto armato che non ha né avrà sbocchi. E poi, con la rivoluzione in Siria che scombina il flusso di armi e quattrini verso la Striscia, il miliardo di euro l’anno di aiuti che arriva puntuale in Cisgiordania ha la sua attrattiva. Al-Fatah, entrato in una fase "movimentista", ma ammaestrato dal nulla seguito alle iniziative diplomatiche per il riconoscimento Onu, ha bisogno del "peso" di Hamas per ricondurre Israele al tavolo delle trattative e per riportare la questione dei palestinesi (tutti i palestinesi, appunto) al centro di un’agenda internazionale intasata, che ormai considera il conflitto con Israele una faccenda marginale. Una cosa è sicura. I palestinesi dovranno fare tutto da soli. E cioè disarmare Hamas, cancellarne il proposito di distruggere Israele, organizzare elezioni democratiche, formare un governo stabile, darsi una parvenza di serietà e affidabilità internazionale. Molte cose, tutte insieme e con poco tempo. Per di più sapendo che Israele non darà una mano: il governo Netanyahu, che nel 2011 ha aumentato del 19% il numero degli alloggi in costruzione negli insediamenti, ha molti grattacapi all’interno e, semmai, tutto l’interesse a che i palestinesi siano come sempre divisi, litigiosi e pericolosi. O almeno lo sembrino. Anche se poi, vedi il caso del caporale Shalit, gli accordi li firma più spesso con i terroristi di Hamas che con gli impotenti di al-Fatah. Serve un bel po’ di cautela, insomma. Ma poiché si viene da guerre (nel 2007 tra palestinesi, nel 2008-2009 tra Israele e Gaza) e da anni di niente punteggiato di sangue, non c’è ragione per darsi fin d’ora alla disperazione. Da quelle parti non si stava per nulla meglio, quando si stava peggio.