Infiamma la Francia un progetto di legge, d’iniziativa di deputati di La République en Marche, partito fondato da Emmanuel Macron e cardine del Governo in carica. Intitolato alla «sicurezza globale», è fortemente contestato in molte sue parti, ma principalmente in quell’articolo 24 che sanziona con pene severe (un anno di reclusione e 45.000 euro di multa) chiunque diffonda, allo scopo di ledere l’integrità fisica o psichica di membri delle forze dell’ordine impegnati in operazioni di polizia, le loro immagini o altri elementi identificativi. Il testo, fortemente voluto dai sindacati di polizia e appoggiato anche dall’estrema destra lepenista, ha suscitato severe opposizioni in tutte le pur varie anime della sinistra parlamentare ma lascia perplessi persino parecchi parlamentari della maggioranza. Nel Paese, manifestazioni e scontri di piazza, e prima ancora aspre e diffusissime critiche nel mondo dei giuristi, in nome, soprattutto, della libertà d’informazione.
Il Governo transalpino ha giustificato in via di principio il progetto ricordando ricorrenti episodi di minacce e di attentati all’incolumità di poliziotti, cui avrebbe fatto da supporto la facilità dell’uso dei moderni mezzi di comunicazione per la diffusione di immagini e segni caratteristici. Quanto alle critiche degli oppositori, si muovono su due piani. Da un lato, si sostiene che a fronteggiare tutto ciò debbono bastare gli ordinari strumenti della repressione penale (che già puniscono gli atti diretti a minacciare o a ledere l’incolumità o l’onore degli stessi).
Dall’altro, si sottolinea il rischio – emerso in trasparenza anche da alcune incaute dichiarazioni del ministro dell’Interno – che ci si serva della nuova e 'speciale' norma incriminatrice per legittimare le prassi, purtroppo già assai spesso constatate, dei sequestri preventivi di cellulari e di altri mezzi di riproduzione d’immagini durante lo svolgimento di manifestazioni; con la conseguenza, non solo di impedire una corretta ed esauriente informazione al pubblico attraverso i media, ma altresì di distruggere prove altrimenti utilizzabili in eventuali processi penali a documentazione di abusi di potere.
Delle criticità sembra in parte essersi reso conto lo stesso Governo Castex, facendo inserire in extremis, prima dell’approvazione del testo da parte dell’Assemblea Nazionale, alcuni emendamenti, a dire il vero non troppo rassicuranti (con uno si fa genericamente salvo dall’essere pregiudicato 'il diritto d’informare', con un altro si esige che lo scopo lesivo della diffusione dei connotati identificativi sia 'manifesto'); e annunciando ora la riscrittura del cruciale articolo 24. Ma resta forte l’inquietudine. Certo, questo non è che uno dei tanti sintomi di una tensione, da sempre esistente e che in parte è inevitabile e neppur di per sé negativa, tra i due valori della (o, meglio, delle) libertà e della sicurezza, pur nella consapevolezza che nessuno di due può essere considerato assolutamente intangibile.
Non è peraltro un caso che libertà e sicurezza si trovino di solito affiancate strettamente nelle più autorevoli 'Carte dei diritti fondamentali' prodotte nel mondo contemporaneo, sino a farle apparire come i due elementi di un binomio inscindibile. «Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza»: così, tra gli altri, esordisce l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, valida dagli anni Cinquanta del secolo scorso nell’ambito del Consiglio d’Europa (47 Stati) e il testo è ripreso alla lettera nell’art. 6 della più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (27 Stati). Nella medesima Convenzione, più specificamente, gli artt. 9, 10 e 11, nel ribadire come fondamentali le più classiche libertà pubbliche (di coscienza, di associazione, di riunione) ne contrappuntano la tutela dando alla 'sicurezza' della collettività un ruolo di potenziale fattore di deroga a certe loro concretizzazioni.
Non senza, però, ancorare possibili limiti o eccezioni al rispetto di ciò che implica l’appartenenza a una 'società democratica'. E la Corte europea di Strasburgo, cui spetta garantire l’applicazione di questa regola, non manca di esigere che quei limiti e quelle eccezioni si mantengano in rapporto di stretta proporzione con il sacrificio che ne deriva alle libertà fondamentali. Due punti, tra gli altri, dovrebbero comunque essere fuori discussione. E non solo in Francia. Primo. La sicurezza non può mai essere addotta a scusante di comportamenti violenti da parte di chi la sicurezza è chiamato a tutelarla.
Tanto più quando siano ispirati da sentimenti ignobili come il razzismo: il pestaggio del produttore musicale al grido di «sporco negro» da parte di quattro agenti, che ha ulteriormente arroventato le piazze al di là delle Alpi e scatenato indignazione in tutto il mondo, ne ha dato, proprio in questi giorni, un eloquente, e purtroppo ennesimo esempio. Secondo. La sicurezza è un bene comune; non solo di una parte delle persone che ne escluda a priori altre. Ma gli esempi di quanto si faccia fatica ad accettare questo postulato sarebbero a loro volta innumerevoli. Proviamo a proporne uno, in forma di domanda retorica, tra quelli che meno si ama ricordare? Siamo proprio certi che per la buona (?) coscienza delle nostre società la sicurezza sanitaria – specialmente in tempi di Covid-19 – valga pure per i detenuti, dato 'quel che han fatto'?