Ci stanno provando. Ripetutamente. Con una tenacia che rivela quanto è alta la posta. L’ultimo attacco viene dalla Cina (ma da sviluppo su prodotti Microsoft): voilà, il 'robot' scrive poesie. Ne pubblica l’opera la Cheers Publishing di Pechino. E da noi prontamente c’è chi, pedissequo, rilancia. A una macchina chiamata Xiaoice (in inglese Little Ice, 'piccolo ghiaccio', già il nome è penoso) hanno fatto 'leggere' tutte le poesie scritte da 519 poeti in 20 anni. E il robottino (in realtà, un software) ne sputa 10mila in 2.760 ore. Un migliaio di poesie al giorno.
Una cosa impossibile a un uomo, affermano orgogliosi Li Di e Dong Huan, i due avventati 'inventori' che vantano la produzione e il lancio. E io mi chiedo: cosa ce ne facciamo di un programma-robot che sputa poesie? La poesia non è inutile? Ci aspettiamo robot che dirigano bene il traffico semmai. E allora perché tanta tenacia e clamore per mostrare che l’automa sa fare arte come noi? Perché solo se dimostri che il robot fa arte – quella attività che né i carciofi né i moscerini fanno – puoi considerare realizzato il sogno di aver creato l’uomo artificiale.
L’uomo che nasce da se stesso. Ma finché non dimostreranno, tra l’altro, che il robot fa arte, questi signori che vogliono sostituire Dio con la loro mente e il loro potere (e i loro soldi) sbatteranno il muso. Che un software possa avere migliori abilità di un uomo nel gestire informazioni e reazioni conseguenti è ovvio. Il salto sta nel dimostrare una capacità di elaborazione di pensiero 'creativo', cioè non dipendente da cose 'meccanicamente' imparate, ma con un surplus, così anche la macchina dimostrerebbe d’esser veramente 'intelligente'.
Questa intelligenza 'non predeterminata' è già in atto in molti robot. E dunque per affermare che sanno già fare arte devono farci credere che la massima espressione dell’uomo è frutto solo di intelligenza, non di una natura 'spirituale', e dunque imitabile dall’automa raffinato. Ma lo spirito creativo e l’intelligenza sono due cose diverse. La frontiera nuova è qui. La tenacia con cui in convegni e pubblicazioni questi 'meccanici' che nulla sanno di cosa sia l’arte, dopo aver mostrato le loro slide sul robot che batte un cinese a ping pong, esibiscono «computer che fanno arte» è pari alla loro presunzione. Che tra l’altro crolla quando il produttore afferma di aver scelto personalmente le poesie che il programma doveva «assumere».
E allora c’è lo zampino, anzi, lo zampone umano. E non solo: dove sta dunque la libertà tipica di un processo creativo? Dove la consapevolezza che stai leggendo poeti di un’epoca sola? Dove la coscienza del tempo, necessaria in ogni scelta stilistica? E la tipica libertà di uscire da uno stile, di tentare e tornare indietro? L’arte poetica è ben altro che sputare testi frutto di un vocabolario assunto in precedenza. L’argomento che alla lettura tali testi possono suscitare emozioni è così banale che non varrebbe risposta: anche una copia di un Caravaggio può emozionare, ma non per questo la scambiamo con un quadro di Caravaggio (che ne è origine). La grossolanità di tale pretesa e l’eco mediatica che riceve fa effetto – la notizia fa più clamore della smentita.
Quanti soldi spesi per una cosa alla fine 'inutile', anche se a volte la scienza avanza con i fallimenti. Ma preoccupa la debolezza di argomentazioni a difesa dello spirito umano offerte da un mondo artistico ideologizzato e secolarizzato, incline a pensare all’arte come mero dispositivo combinatorio, come sola abilità.