Ma quale America Trump vuole «prima»?
domenica 26 febbraio 2017

La libertà di stampa è una di quelle la cui violazione sistematica da parte della Corona spinse gli abitanti delle 13 colonie a scendere in guerra contro il loro re, cessare di sentirsi (prima ancora di smettere di esserlo) sudditi britannici e proclamarsi americani. È garantita dal Primo Emendamento della Costituzione statunitense, a ricordare quanto essa sia decisiva per tutte le altre libertà e fa parte della cultura popolare e della tradizione Usa tanto quanto la torta di mele e il tacchino del pranzo del Ringraziamento. Forse Donald Trump non se ne rende conto, non ha abbastanza conoscenza e rispetto per la storia e la tradizione degli Stati Uniti; ma sta davvero “scherzando con i santi”, con i Padri Fondatori. Ancora una volta, nelle poche settimane da cui si è insediato, sta dando l’impressione che dietro il suo slogan «America first!» , ci sia qualcosa di profondamente antiamericano. Il presidente sta forzando lo spirito della Costituzione, sta sottoponendo il sistema a una torsione alla quale non potrebbe sopravvivere. Il punto è che il presidente degli Stati Uniti ha un potere enorme ed è proprio per questo che il suo operato deve essere sottoposto a un continuo scrutinio.

È proprio lo scrutinio della pubblica opinione, attraverso l’azione dei media, che completa e rende efficace il meccanismo equilibratore dei checks and balance tra i poteri dello Stato. Impedire alla stampa o alla tv di fare il proprio mestiere, di lavorare anche con acribia, significa vanificare quel sindacato del popolo sull’azione di governo che è l’essenza della democrazia. “Beccato” a fare affermazioni sbagliate, non verificate o persino false oltre un centinaio di volte da quando risiede alla Casa Bianca (una media di quattro volte al giorno, secondo il New York Times), Donald Trump ha reagito come quei ragazzini viziati che quando perdono portano via il pallone, “perché è mio!”. È un atteggiamento inaccettabile se proviene da un bamboccio, figuriamoci da un presidente. E, oltre tutto, il pallone in questione – la libertà di stampa, appunto – non è suo, ma appartiene al popolo americano da quasi 250 anni. Escludere il New York Times e la Cnn dai briefing della Casa Bianca perché fanno il loro mestiere di cani da guardia della libertà tutelandola dallo strabordare del potere è un atto inaccettabile. Ancor di più è additare i giornalisti come «nemici del popolo»: se è grave quando le liste di proscrizione sono stilate da un capopopolo, è decisamente pericoloso quando a farlo è chi riveste la più alta magistratura repubblicana. Qui non sono in discussione le idee o i principi che Trump intende sostenere durante i quattro anni del suo mandato e neppure le sue politiche.

Ciò che si stigmatizza è l’insofferenza per la critica e per la richiesta di una “narrazione” – forse questa orribile locuzione vi è familiare – che non si prenda sistematicamente gioco della verità, accusando invece gli altri di mentire. Per non farsi mancare niente, Trump ha messo nel mirino anche l’Fbi, dopo essersela presa in precedenza con la Cia e la Nsa, ovvero le agenzie federali che vigilano sulla sicurezza dei cittadini americani, i cui funzionari sarebbero rei di non aver fornito allo staff del presidente elementi per rintuzzare le accuse mosse dal New York Times di relazioni poco chiare e troppo strette tra membri dell’entourage del presidente e agenti dei servizi di intelligence russi. E anche il sistematico stalking sui propri apparati di sicurezza è qualcosa che non si era mai visto prima, che rischia solo di fare il gioco dei nemici degli Stati Uniti, costringendo Fbi, Cia e Nsa a doversi guardare continuamente le spalle, per non cadere sotto il “fuoco amico” presidenziale.

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