lunedì 21 gennaio 2013
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​La tragica fine dell’assedio all’impianto gasiero di In Amenas, con la morte di un numero ancora imprecisato di lavoratori e terroristi, provoca pietà, orrore e sdegno per la perdita di vite umane, il crimine commesso e la brutalità dell’azione delle forze speciali algerine. Nel contempo fa crescere la preoccupazione per una escalation terroristica, rivolta anche verso l’esterno, in una regione che ha già visto per anni la bestiale violenza fondamentalistica scontrarsi con la repressione indiscriminata, in una guerra civile che ha fatto centinaia di migliaia di morti. Molto è stato già detto sull’effetto domino, forse non abbastanza considerato, che l’intervento francese in Mali può provocare e sulle scarse prospettive di un contrasto al radicalismo armato fatto soltanto di azioni militari, di cui spesso fanno le spese i civili, finendo con il suscitare altri consensi alla lotta anti–occidentale. Quello che però sembra mancare è un’adeguata considerazione del problema alla radice di questa nuova emergenza. Un problema che è tanto più grave per il fatto di essere stato a lungo sottovalutato e che rischia ora di restare sullo sfondo delle critiche (fondate o meno) al “neo–colonialismo” francese. Il problema è la concreta possibilità che il Nord del Mali e aree limitrofe, in quella che è stata chiamata dagli osservatori più avvertiti la grande cintura jihadista africana, diventino in tutto e per tutto un nuovo santuario della galassia di estremismo islamico che si richiama ad al–Qaeda. Forse le dune del deserto maliano ci sembrano troppo lontane e troppo inospitali per figurarcele come la sede di una minaccia agli equilibri del Continente e alla stessa vicina Europa. Eppure, sarebbe davvero pericoloso dimenticare l’amara lezione afghana. E non solo perché Mokhtar Belmokhtar, il leader del gruppo che ha fatto strage ad Amenas, è stato iniziato alla “guerra santa” proprio nel Paese asiatico ormai vent’anni fa. Quando, nel 1996, Osama Benladen fu espulso dal Sudan e tornò in Afghanistan, “ospite” del mullah Omar e del regime talebano, l’estremismo ideologico si fuse con l’organizzazione militare, grazie anche a complicità mai del tutto chiarite dei servizi segreti pachistani, facendo di Kabul il centro di irradiazione del fondamentalismo. Dal nucleo dei mujaheddin che combatterono gli invasori sovietici negli anni 80, cui si unirono fedeli musulmani anche da altri Paesi nel primo Jihad dei decenni recenti, emerse al–Qaeda, la “base”. Fino a pochissimi anni fa (e in parte ancora oggi) il nucleo dei combattenti formatisi affrontando l’Armata Rossa, e nel periodo successivo sotto Benladen, costituiva la struttura portante della rete del terrore. Erano loro i grandi reclutatori, gli strateghi e i suggeritori, da Kalhed Skeikh Mohammed (ritenuto la mente dell’11 settembre) ad Hambali (accusato della strage di Bali), da Abu Musab al–Zarqawi (capo delle operazioni in Iraq, eliminato nel 2006) ad al–Muqrin (considerato la guida dell’offensiva in Arabia Saudita e ucciso nel 2005). E poi Osmai Rabei, detto “Mohamed l’egiziano”, (arrestato a Milano come ispiratore dell’eccidio di Madrid), il marocchino Mohamed Guerbouzi (cofondatore del Gicm) e il siriano–spagnolo Mustafa Nasr Setmarian, alias Abu Musab al–Suri, sospettato di coinvolgimento sia negli attentanti spagnoli sia in quelli di Londra (e ritenuto uno degli architetti della nuova guerra all’Occidente).Negli ultimi anni l’azione americana di intelligence e le esecuzioni mirate hanno messo alle corde la prima generazione di al–Qaeda, le cui vicende hanno avuto epilogo il 2 maggio 2011, con l’uccisione ad Abbottabad (in Pakistan) dello sceicco del terrore. Ma la morte di Benladen non ha posto fine alla funzione catalizzatrice della “resistenza” talebana. Persino Mohamed Merah, lo spietato killer di Tolosa nel marzo 2012, era stato in Afghanistan e Pakistan due anni prima: probabilmente, parte del suo indottrinamento e del suo addestramento furono compiuti in quei Paesi.È esagerato ed allarmistico pensare che singoli attentatori o gruppi organizzati possano in futuro provenire da un nuovo santuario del terrore, cresciuto indisturbato o, addirittura, alimentato da nostri errori nella regione, come l’improvvisato intervento in Libia e l’intermittente appoggio alle primavere arabe? Ciò che covava da tempo è oggi alla luce del sole e va scrupolosamente osservato, mettendo in campo tutta le attenzioni e le risorse strategiche necessarie. Non ci sono soltanto le armi. Ma la cosa peggiore sarebbe, è il caso di dirlo, nascondere la testa sotto la sabbia.
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