E dunque ci siamo rimessi a parlare di figli. Della necessità di fare figli per tante buone ragioni: restituire alle donne il diritto alla maternità (e agli uomini quello alla paternità) nei tempi della natura, dare un futuro al Paese, rianimare la crescita e salvare lo Stato sociale, assicurare la tenuta del sistema previdenziale, favorire uno sviluppo sostenibile… e molto altro ancora. Fatta la tara alle reazioni più scomposte, di buono c’è che tra
fertility day e proposte di
voucher l’opinione pubblica ha preso a misurarsi con il problema. La fertilità è un bene comune? Discutiamone. Di sicuro i bambini lo sono, un bene comune. E così le ricette su come rilanciare la natalità hanno preso a fioccare. Sappiamo che non bastano singoli bonus, singole campagne o singole misure, ma programmi di lungo periodo e riforme capaci di creare un contesto favorevole alla procreazione. Posti di lavoro stabili, abitazioni accessibili, asili nido, aumento del tasso di lavoro femminile, politiche per la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della famiglia, migliore divisione dei compiti tra mamme e papà, un welfare amichevole verso i nuclei, un fisco che non penalizzi e impoverisca chi ha figli. Le idee abbondano. Eppure in questa creatività generativa continua a mancare qualcosa, un ingrediente decisivo che chiama in causa il contesto culturale in cui siamo immersi. Più impegnativo che commissionare spot o elargire bonus è piazzarsi davanti allo specchio e riconoscere ciò che siamo: individui fragili, in deficit di speranza, affaticati nello sforzo di restare a galla nell’oceano della globalizzazione. Servono molte cose per rilanciare la natalità, ma quello di cui c’è in fondo bisogno, e che si fa persino fatica a nominare perché non funzionale al modello di sviluppo dominante, è l’unica infrastruttura capace di rigenerare il desiderio di figli: la famiglia. Il fatto è che la realtà è più complessa di come la si descrive. E la dimensione culturale un elemento decisivo. Non è solo dove il Pil è più alto o dove il parttime e gli asili nido sono più diffusi che nascono più bambini, ma anche dove la gente si sposa di più, le famiglie sono più stabili, i legami più solidi e duraturi. Uno studio del
Centre for Research on Impact Evaluation della Commissione europea mostra con tutta evidenza che la fertilità cresce dove il tasso di matrimoni supera quello dei divorzi. Invece noi stiamo procedendo nella direzione contraria. Il posto al nido aiuta a tornare al lavoro prima, ma quando il bimbo si ammala deve essere possibile prendersene cura senza rischiare di impazzire o venire penalizzati al lavoro. Concedere forti incentivi economici ai congedi parentali è un’ottima strategia per costruire una società
family friendly. Eppure a influenzare la scelta di stare o meno a casa è più spesso il comportamento dei colleghi di lavoro. Una ricerca dell’istituto Diw di Berlino dimostra che le madri prendono congedi lunghi se ci sono colleghe che hanno fatto altrettanto, mentre desistono se la pratica non è diffusa o l’ambiente competitivo la scoraggia. Guardiamo anche al lavoro delle donne. Il tasso di occupazione femminile spinge la fertilità, dunque è buona cosa agire per incrementarlo. Però nei Paesi con redditi elevati e nelle coppie benestanti, come emerge da un’indagine del
World Family Map 2015 su lavoro domestico e felicità, sono le madri che stanno più spesso a casa per dedicarsi all’educazione dei figli, quando la scelta è libera da condizionamenti economici. La cultura conta, insomma. Ciò che manca in Italia oggi sembra essere un confronto sereno su desideri e libertà. Domandiamoci provocatoriamente: può uno Stato chiedere di fare più figli, salvo poi farseli consegnare per custodirli ed educarli in luogo delle madri o dei padri? O permettere che a crescerli sia la generazione più anziana? Il declino demografico è un problema di welfare, congedi, permessi, incentivi. Vero. Ma non solo. La verità è che in un’ottica individuale i figli sono una fatica pazzesca, consumano energie, sottraggono risorse, rendono molto più difficile un tipo di vita. Come si fa a competere sul lavoro, viaggiare, andare al cinema, uscire, fare tanti sport, con 3, 4 o 5 figli? I conti con l’idea moderna di libertà sono duri, ma vanno fatti. A un Paese con un tasso di fertilità di 1,35 figli per donna e una popolazione declinante quello che manca non sono i figli unici, ma i fratelli: i secondi, e soprattutto i terzi e anche i quarti figli. Ma nell’era della stagnazione secolare e della crisi spirituale si può giudicare chi preferisce un’esistenza un po’ meno dura di quanto già non sia senza (o con pochi) bambini? Inutili i confronti con le nascite del Dopoguerra, quando le macerie erano altre. Ogni scelta va rispettata, a prescindere dai costi sociali che comporta. È in questo che si scorge il valore di un’operazione culturale, che deve muovere anche dal basso. Dall’esempio di famiglie imperfette ma solide, capaci di mostrare con umiltà quanto sia abbordabile l’impresa e quanto grande la gioia che deriva dai sacrifici della vita familiare. Tante ricerche dimostrano come nel lungo periodo il matrimonio renda più felici le persone. È così difficile farlo emergere pubblicamente? Non si tratta di chiedere allo Stato di indicare la via della felicità, ma di rendere conveniente l’opzione della famiglia e dei figli, valorizzando il contributo sociale dei genitori e facendo capire ai giovani che non saranno lasciati soli se vorranno formare una famiglia. L’esperienza insegna che i governi sono più avari di sostegni a figli e natalità nei Paesi dove per tradizione culturale o vissuto religioso si attribuisce un valore elevato alla famiglia. Il problema italiano è che la famiglia è finita sotto attacco e si è indebolita, ma nessuno ha pensato di aggiornare gli strumenti. Per questo è importante far emergere testimoni capaci di erodere in silenzio l’edificio cupo di questa globalizzazione e riproporne una dal volto umano, rispettosa del valore delle promesse durature.
I l mercato che conosciamo si nutre di individui soli, disposti a muoversi in assenza di legami stabili, altamente flessibili, bisognosi di una lunga formazione prima di essere accettati, ha bisogno di due genitori al lavoro per poter mantenere un figlio. E ora improvvisamente chiede più bambini per non implodere. Qualcosa non torna. La questione è ritrovare un equilibrio demografico in un contesto culturale declinante perché impregnato di individualismo. È in questa dimensione che i bambini devono tornare a essere considerati un bene pubblico, e la famiglia un capitale sociale. Fate figli? Sì. Ma prima (o poi) sposatevi. E restate insieme.