«Preferirei stare sulla terra e servire un altro, un uomo senza possedimenti e che non avesse di che vivere, piuttosto che regnare su tutti i morti consunti». È la risposta di Achille, nella nékyia dell’Odissea (XI, 488-491), a Ulisse che lo consola per essere finito tra le anime evanescenti dell’Ade: la risposta di un uomo (un eroe) vissuto in un tempo non ben precisabile, almeno 1.200 anni prima di Cristo, e cantata da Omero all’incirca cinque secoli dopo. Oggi la concezione dei cristiani sull’aldilà non è più così negativa, in seguito appunto alla venuta del Salvatore.
Ma pochi si spingerebbero a voler accorciare i tempi dell’incontro con Lui, se non chi proprio soffre di pene insostenibili. Perché la morte è il passaggio a una dimensione che, comunque la si immagini, implica l’annullamento di tutto ciò che costituisce il nostro hic et nunc, da cui è umanamente difficile distaccarsi sia pure in vista dell’ascesa al Regno dei Cieli. Per questo a me, non credente, riesce incomprensibile l’atteggiamento con cui la questione del fine vita è risolta da tanti presunti laici ('presunti' perché da un laico ci si attenderebbe l’umiltà del dubbio anziché la baldanza delle certezze). Prendo lo spunto, ma solo lo spunto, dall’ultima vicenda, quella di Samantha D’Incà, senza permettermi considerazioni su un dramma familiare che ha avuto il pregio, peraltro, di consumarsi al fuori del clamore mediatico e delle opposte faziosità suscitati da altre vicende simili, ma che inevitabilmente ripropone alcuni interrogativi. Ammettiamo pure il caso di una situazione clinica irreversibile (ma quando si può davvero essere certi che una situazione irreversibile oggi lo sarà anche domani?).
Ammettiamo che la sofferenza sia tale da rendere preferibile liberarsene a ogni costo: smettere di essere per non essere più sofferenti. Ok, in questi casi la sospensione dell’accanimento terapeutico, il suicidio assistito, l’eutanasia possono essere (tragiche) scelte comprensibili, umane, pietose, forse neppure contrarie alla legge divina. Ma quando, poniamo, il cervello è assente e ha perso i collegamenti con il corpo, e quindi il corpo non soffre, non avverte più nulla? Smettere di essere per smettere di non soffrire? Si sente spesso invocare il diritto a 'una fine dignitosa', quando la vita non è più degna di essere vissuta. Ma quand’è che una vita diventa indegna? Può tornare utile un vecchio argomento filosofico, il paradosso megarico del sorite, altrimenti noto come argomento del calvo.
Se un uomo perde un capello, non si può chiamare calvo; nemmeno se ne perde due, tre, quattro, cento, mille. Eppure, continuando a perderne, a un certo punto lo diventerà: qual è il momento in cui può essere definito calvo? Qual è, se c’è, il punto esatto di passaggio dal qualche cosa al nulla? E quand’è che una vita non è più degna di essere vissuta? Quando si versa in un coma irreversibile? Oppure quando si è in uno stato di locked-in, si è vigili ma non si può comunicare con l’esterno? O quando si è in grado di comunicare ma tutto il corpo è paralizzato? O quando sono paralizzati o perduti i quattro arti, o magari due o anche uno solo? Oppure quando si diventa ciechi? I criteri di valutazione variano, in qualità e in quantità, a seconda degli individui e delle loro priorità. Questo colpisce, di certi discorsi sulla dignità della vita: un certo impulsivo materialismo (personalmente non ho nessuna prevenzione verso questa corrente filosofica, non saprei risolvere con me stesso il dubbio se il pensiero sia un epifenomeno della materia o la materia un epifenomeno del pensiero), ma un materialismo imponderato e paradossale, come se la vita fosse un elettrodomestico che quando si guasta si getta via e si sostituisce con un altro.
Una vita umana, un individuo, quando finisce, non può essere sostituito. È qualche cosa di unico e insostituibile, e la tutela della sua unicità e insostituibilità dovrebbe essere la prima preoccupazione per tutti, fin dove e fin quando è possibile. Dopo di lui ci saranno altri individui, ma lui precisamente lui, nella sua irripetibile unicità, non ci sarà più. Un’altra invocazione che si sente spesso è la libertà di scelta. E #liberifinoallafine è l’hashtag pro-eutanasia dell’Associazione Luca Coscioni. Il presupposto è che la vita è mia e solo io sono libero di deciderne la sorte: giusto, ma fino a un certo punto. La vita è soprattutto mia, ma è anche fatta delle relazioni che ho stabilito con gli altri: non esiste un io astratto da tutto ciò mi è accaduto e ho fatto accadere io stesso da quando sono al mondo.
E io stesso sono il risultato di un intreccio di generazioni e di relazioni contingenti che risalgono nella notte dei tempi: se vogliamo buttarla sul biologico, di un incontro tra il gamete maschile, uno delle decine di milioni che entrano in gioco in un rapporto sessuale, e il gamete femminile, una corsa a ostacoli in cui vince quello che arriva primo e così determina la mia identità; basterebbe che vincesse un altro dei milioni e milioni e io non sarei più io, o forse lo sarei soltanto in parte. Se moltiplichiamo la contingenza del mondo umano presente per quella di tutte le generazioni che lo hanno preceduto, arriviamo alla conclusione che la parte emersa è solo una minuscola porzione delle possibilità irrealizzate, l’esiguo numeratore di una frazione che ha per denominatore un numero così lungo da non potersi scrivere. Perché è emerso proprio questo mondo e non un altro? Io e non un altro? I credenti lo attribuiranno al disegno divino, diversamente si potrà imputare al caso.
Ma è comunque un caso che lascia interdetti, che desta una vertigine metafisica di cui le religioni si fanno carico, ognuna a modo suo, al contrario di chi all’occorrenza è pronto a trattare il risultato di questa fragile, precaria, accidentata storia, ossia l’individuo, come una lavatrice guasta. Non è che queste considerazioni debbano legarci le mani rispetto alle scelte ultime, ma, ecco, almeno andrebbero tenute presenti quando si parla con troppa facilità di 'libertà fino alla fine'. Che è poi una libertà molto limitata, perché disgraziatamente al genere umano non è dato scegliere se, ma solo eventualmente come e quando inevitabilmente morire. Viene in mente la libertà impetrata da Bertoldo quando il re Alboino lo condannò all’impiccagione: la possibilità di scegliersi l’albero. Solo che Bertoldo, più saggio di certi pasdaran dell’eutanasia, al momento della scelta scelse di non scegliere. E così si salvò la vita.
Giornalista, a lungo tra i responsabili delle pagine culturali de 'la Stampa'