La spiritualità al lavoro sembra essere un nuovo e significativo paradigma manageriale che i dirigenti aziendali potranno sfruttare al fine di migliorare le proprie organizzazioni aumentando, fra gli altri, i livelli di impegno organizzativo, soddisfazione e performance dei propri dipendenti
Sofia Lupi, La spiritualità nelle organizzazioni
Nel "mercato della spiritualità" sta rivivendo l’antica Legge di Gresham: la moneta cattiva scaccia la moneta buona. Questa legge scattava ogni volta che nelle piazze giravano due tipi di moneta: quella buona e quella falsa non facilmente riconoscibile come tale. La moneta cattiva infestava le piazze, e nel giro di poco tempo quella buona scompariva dalla circolazione. Il culto capitalistico-meritocratico, più "leggero" e di veloce circolazione, sta spiazzando le fedi genuine tradizionali, spacciando i suoi culti totemici per grandi innovazioni, che poi rischiano di infettare anche ciò che resta delle antiche fedi, affascinate e sedotte a loro volta dal nuovo culto. La prima grande operazione del capitalismo di ultima generazione è stata la riduzione delle religioni e della spiritualità a merci. La seconda recentissima operazione è un autentico capolavoro: trasformare le grandi imprese nei primi consumatori di queste "merci spirituali".
Pensiamo ai riti aziendali, la nuova moda nelle grandi imprese, dove ritroviamo sempre più forme liturgiche e rituali tipici delle antiche idolatrie. Gruppi di lavoro abbandonati per alcuni giorni nelle foreste e nei deserti, per iniziazioni collettive e "team building"; giochi di ruolo sempre più bizzarri per aumentare lo "spirito" di squadra; sessioni di "escape room", dove le persone vengono richiuse per un certo tempo a risolvere enigmi, per poi riuscire a fuggire nel tempo stabilito. Veri e propri riti sociali stanno sostituendo gli ormai arcaici esercizi di "fiducia", dove qualcuno si lasciava cadere indietro mostrando così fiducia nei confronti degli altri membri del gruppo.
Quando, alcuni anni fa, questi giochi per adulti furono introdotti in alcune aziende innovative, le prendevamo tutti un po’ come momenti di ricreazione, e ci divertivamo pure. A un certo punto, però, il gioco è scappato di mano, abbiamo smesso di ridere, ci hanno convinto che era tutto una cosa seria, serissima. E ci abbiamo creduto. Anche le tradizionali convention, dove tutti i dipendenti indossavano la divisa (o magliettina) aziendale, dove si intonavano i tristi inni dell’impresa, sono oggi sostituiti da liturgie più sofisticate. Tra queste il "teatro aziendale", dove durante le feste i dipendenti rappresentano delle pièce, scritte o riviste dai consulenti, per sublimare i conflitti e le frustrazioni del lavoro. O i cosiddetti "road show", dove il top management si reca in visita nei reparti e nelle filiali, per incontrare direttamente i lavoratori nel loro ambiente. Vere e proprie visite pastorali, che si alternano a quelle ad limina.
Non stupisce, allora, che una ultima frontiera delle grandi imprese sia la spiritualità nel management, che sta conoscendo un vero e proprio boom. Si moltiplicano convegni, corsi, libri su temi molto affascinanti: "amore e perdono nel management", "come formare leader spirituali", "interiorità e leadership", e molto altro. E così si invitano in azienda guru di ogni "religione" antica e nuova, purché riescano ad aumentare il "capitale spirituale" delle imprese, a coltivare il karma aziendale. Nelle imprese iniziano a fare la loro comparsa le "meditation room" dove poter trascorrere alcuni minuti (ben contingentati) per recuperare energia spirituale. O a essere prodotte sono vere e proprie liturgie e preghiere aziendali, con cui iniziare le riunioni di lavoro o i "ritiri spirituali" aziendali. Questi riti e liturgie "laiche" sono ben conosciuti da tempo nel mondo dell’economia. Ma fino a poco fa erano segreti, solo per alcuni, e fortemente osteggiati dalle Chiese e dal mondo del lavoro. Oggi sono pubblici, popolari, lodati da (quasi) tutti.
Un ambito dove questa ondata di spiritualità è particolarmente evidente e pericolosa è il variegato mondo della leadership. Leader e leadership, declinati con aggettivi sempre più creativi, stanno diventando le prime parole d’ordine di questa nuova religione, che si sposa perfettamente con l’ideologia meritocratica. Parole come responsabili, dirigenti, capiufficio, sono ormai diventate vecchie e superate, legate a un capitalismo troppo banale.
Ecco allora che emergono questi nuovi termini, pronunciati sempre nella lingua sacra inglese: i leader. Questi, diversamente dai vecchi dirigenti, devono avere carisma, fascino, attrattività. Nelle nuove imprese è indispensabile ottenere il consenso dell’anima e del cuore, non basta quello del contratto, e solo un leader può guadagnarsi questo tipo di adesione dello spirito. Per la stessa natura della leadership, non tutti possiamo essere leader.
Ecco allora arrivare consulenti e professionisti che sanno riconoscere nei lavoratori i segnali di vocazione alla leadership. Li selezionano, li formano, li avviano alla loro missione, che nella sua essenza consiste nella capacità di manipolare il consenso delle persone da loro guidate, portandole a dare un assenso volontario alle proposte del leader. Lo scopo ultimo del leader è infatti l’adesione intenzionale e libera dei seguaci agli obiettivi del gruppo, che vengono interiorizzati e seguiti grazie all’abilità e al carisma del leader. È il superamento definitivo della gerarchia e della coercizione: il leader ha il dono di trasformare ordini esterni in ordini interiori, dove ogni seguace aderendo intimamente alle direttive del leader obbedisce solo a se stesso, realizzando così la più grande autonomia del lavoratore-seguace. Si realizza finalmente il sogno di un sistema di produzione "fraterno", non più basato sul conflitto e sulla lotta, ma sul consenso libero e reciproco del cuore.
Se, allora, andiamo a guardare bene tra le righe della nuova teoria e prassi della leadership di ultima generazione scopriamo, e qualche volta leggiamo, che la figura del leader ideale è quella del profeta: cioè qualcuno seguito liberamente e con gioia per la forza del suo carisma, per la sua autorevolezza, per il suo fascino spirituale. Qualcuno che ha la capacità di convertire interiormente i suoi seguaci senza bisogno di nessun comando né controllo, perché i lavoratori interiorizzano la sua parola, diventando perfettamente autonomi e legge a se stessi. E soprattutto felici di seguirlo.
La leadership di ultima generazione si presenta allora come leadership spirituale, dando vita a una nuova forma di meritocrazia: la «meritocrazia spirituale» (Shawn van Valkenburgh). Questo new age aziendale del terzo millennio, mettendo insieme meritocrazia e spiritualità, sta implementando perfettamente quella religione retributivo-economica contro la quale avevano lottato con tutte le loro forze Giobbe, i profeti e poi il cristianesimo. E ciò che è sconvolgente, è che tutto sta avvenendo non solo nel silenzio del mondo amico del lavoro vero e della gente ma anche di buona parte del mondo ecclesiale e in generale delle religioni "vere". Tra i guru invitati a parlare di spiritualità ai manager troviamo sempre più monaci e sacerdoti, e stanno crescendo i corsi di leadership per parroci e "leader" di comunità religiose, organizzati e venduti, ovviamente, dalle stesse società di consulenza e business school.
Purtroppo i promotori e divulgatori di queste quasi-teorie, non sanno che i profeti biblici e i fondatori di autentici movimenti carismatici non si sono mai considerati dei leader. I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia), quando ricevono la chiamata di Dio oppongono resistenza, proprio perché non si sentono dei leader, né, tantomeno, vogliono diventarlo. Il solo pensiero di essere dei leader li terrorizzava. Dove invece si radunavano spontaneamente molti uomini che bramavano di diventare leader erano le scuole profetiche, che sfornavano moltitudini di "profeti per mestiere" e, soprattutto, molti falsi profeti e ciarlatani. La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato recita: "diffidate da chi si candita a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta", un imbroglione, o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono che si diventa "leader" non volendolo diventare. Ma soprattutto ci dicono che quando le comunità si sono messe a disegnare a tavolino classi di leader hanno finito nella migliore delle ipotesi con un buco nell’acqua, e nella peggiore formando dei mostri, anche quando mosse da ottime intenzioni.
Soltanto un paio di decenni fa, quando erano ancora vive e attente la tradizione sindacale e la cultura del lavoro vero, questi fenomeni sarebbero stati denunciati come abusi della peggiore fatta, combattuti e, soprattutto, ridicolizzati e sbeffeggiati, si sarebbe sommersa con sdegno e risate questa nuova sotto-cultura. Oggi invece, nella crisi spirituale ed etica nella quale siamo sprofondati, queste manipolazioni si presentano come innovazione, umanesimo, governance partecipativa, modernità, e sono accolte con entusiasmo.
Oggi alle imprese dobbiamo chiedere più laicità, molta più laicità. Che facciano il loro mestiere, e ridimensionino le loro mire imperialiste nel mondo e nell’anima. Dalle imprese non vogliamo né profeti né salvezza, ma che ci lascino più spazi liberi, un pezzo di terra libera dove possiamo coltivare le piante e i fiori che ci piacciono. Le imprese possono fare molte cose buone, ma non tutte. Le aziende che vogliono sinceramente aumentare il benessere dei lavoratori (e ce ne sono), quelle che hanno capito che la coltivazione della vita spirituale li fa vivere meglio, lascino loro un tempo adeguato per coltivare queste dimensioni essenziali della vita ma al di fuori del posto di lavoro. Con la loro famiglia, con i loro amici, con le loro comunità. Non cerchino il monopolio delle vite e delle anime. La spiritualità che fa bene e che fa vivere richiede più aria di quella possibile dentro gli uffici, più cielo di quello che si vede dalle finestre delle imprese, più luce di quella delle lampade led. E soprattutto ha bisogno di due parole che poi sono una: libertà e gratuità. Arte, fede, preghiere sono tra le espressioni umane più belle e sublimi se e perché non sono finalizzate e nulla che non siano la bellezza, la fede, la preghiera.
L’unico fine che possono avere è l’infinito. Quando, invece, cerchiamo di orientarle, di finalizzarle, di usarle, queste realtà meravigliose diventano delle caricature, dei giocattoli, qualche volta dei mostri.
Dietro l’offerta e la domanda di spiritualità che sta emergendo dal capitalismo ci sono certamente anche buone intenzioni, mescolate con manipolazioni e molta ingenuità. Ma gli effetti più importanti nelle realtà sociali e organizzative sono quelli non intenzionali e di medio periodo. Se oggi sottovalutiamo il movimento di spiritualità aziendale, non lo critichiamo e lo incoraggiamo, forse domani per trovare una Messa in città dovremo chiedere di essere ospitati da un’impresa. Sarà una messa laica e spiritualissima, ci verrà offerta gratuitamente. E noi ringrazieremo.
l.bruni@lumsa.it