Io so bene che il nome di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore
Ignazio Silone, Fontamara
Sono molti coloro che giustificano azioni ingiuste in nome di qualcosa di buono che quelle persone o istituzioni, mentre negano giustizia e diritti, pur fanno (posti di lavoro, Pil...). E troppo debole è ancora il grido di profeti che dicono che queste cose "buone" non saranno mai davvero buone senza giustizia, soprattutto senza quella tipica giustizia concepita e misurata dalla prospettiva dei più poveri. Le ragioni dell’economia, della politica e della finanza si trasformano profondamente se guardate, assieme a Lazzaro, da sotto il tavolo del ricco epulone. «Gereboamo [II] recuperò il territorio d’Israele dell’ingresso di Hamat fino al mare dell’Arabia, secondo la parola che YHWH, Dio d’Israele, aveva detto tramite il suo servo Giona» (2 Re 14, 23-25). Una delle costanti che abbiamo incontrato in questi anni di commenti alla Bibbia è il suo pluralismo nelle letture dei dati storici. Queste diversità sono di molti tipi. Una importante è quella tra le interpretazioni dei fatti dei profeti di corte e quelle dei grandi profeti biblici. I profeti di palazzo, quasi sempre falsi profeti, ieri e oggi hanno come principale scopo confermare e rassicurare i re e i potenti nelle loro certezze e, soprattutto, nelle loro illusioni. I profeti veri, invece, non hanno nessuna agenda propria, e così hanno la libertà-obbligo di riferire soltanto le parole che ricevono. Per questo sono ingestibili, imprevedibili, non addomesticabili, non in vendita.
In questo capitolo troviamo un esempio di questa tipica diversità. Per i libri dei Re, questo Giona, probabilmente un profeta di corte, difficilmente l’autore del libro biblico che porta il suo nome, sembra aver espresso su quei successi militari una valutazione positiva. Un altro profeta, Amos, un grande grande e contemporaneo di Geroboamo II, aveva dato a quegli stessi fatti una interpretazione opposta: «Voi cambiate il diritto in veleno e il frutto della giustizia in assenzio. Voi vi compiacete di Lodebàr dicendo: "Non abbiamo forse conquistato Karnàim con la nostra forza?". "Ora, ecco, io susciterò contro di voi, casa d’Israele un popolo che vi opprimerà dall’ingresso di Hamat fino al torrente dell’Araba"» (Amos 6,12-14). Amos non è profeta di corte, legge quelle conquiste come azioni di guerra di un re ingiusto che non rispettando la giustizia e il diritto dei poveri non poteva certamente agire secondo il cuore di YHWH. Circa due secoli più tardi, il gruppo di scribi che redasse i Libri dei Re fece di quell’azione militare di Geroboamo II una lettura diversa e tutto sommato provvidenziale: «YHWH non volle cancellare il nome di Israele da sotto il sole e li salvò per mano di Geroboamo» (14,27). Il giudizio complessivo su Geroboamo II resta negativo anche nel libro dei Re («fece male agli occhi di YHWH»: 14,23); ma mentre per questi redattori anche un re malvagio può fare un’azione buona, per Amos e per molti profeti la presenza o assenza della giustizia diventa l’elemento decisivo per valutare tutte le azioni di un re. Per i profeti il diritto e la giustizia sono il giudizio assoluto sulla politica di un popolo, che può star vicino soltanto all’altro giudizio assoluto: quello sull’idolatria. Per questa stessa logica Isaia, all’inizio del suo libro, così si rivolge a Gerusalemme: «Che me ne faccio di tanti sacrifici? – dice YHWH –. Sono stufo degli olocausti di montoni e del grasso di grassi vitelli. [...] Smettete di presentare offerte inutili... Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (Isaia 1,11-15).
Certamente anche i re del tempo di Isaia avranno fatto sacrifici e offerte formalmente validi e leciti per la Legge; ma per il profeta le "mani che grondano sangue" annullano il valore anche delle azioni più religiose. Perché quelle ingiustizia e mancanza di diritto svuotano di verità ogni altra azione, perché questi peccati non possono essere compensati né condonati. I profeti sono parziali, partigiani, squilibrati, eccessivi, e per questo ci piacciono, perché così ci salvano dentro i nostri calcoli e compromessi, dentro il buon senso e la prudenza. L’ottavo secolo, politicamente tumultuoso e idolatra, è popolato da molti grandi profeti. Questo fu il tempo di Amos, di Osea, di Michea, e fu il tempo di Isaia. Dovremmo leggere le loro profezie insieme alle vicende storiche narrate dai libri dei Re, e ripercorrere questi fatti di cronaca accompagnati dalle parole dei profeti. Scopriremmo molte cose importanti. Vedremmo, ad esempio, che l’Ahaz di Isaia non incrocia l’Ahaz del Libro dei Re, che nel capitolo 16 a lui dedicato neanche menziona Isaia. Tradizioni e fonti diverse, certo, ma rimane misterioso non vedere qui il nome di Isaia accanto al nome di Ahaz. Questo re, infatti, nel libro di Isaia è protagonista (in negativo) del grande miracolo di YHWH che allontanò gli assiri da Gerusalemme. Ma è anche causa di uno dei versi più belli e potenti di Isaia. Ahaz, nonostante una parola specifica («Il Signore parlò ancora ad Ahaz: "Chiedi per te un segno"»: 7,11), disobbedì e non chiese un segno. Quel rifiuto produsse però una profezia meravigliosa, che ogni volta ci toglie il fiato: «Il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la giovane donna concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Immanuel» (Isaia 7,14). L’Immanuel, il sogno dei sogni; un bambino, il segno dei segni.
Certo, non conosciamo Ahaz senza leggere il secondo libro dei Re e il libro delle Cronache; ma è altrettanto certo che per avere una idea corretta di quello che è stato Ahaz per la Bibbia, è essenziale anche la descrizione che ci dona Isaia. Non per appurare l’immagine di Ahaz più vera, ma solo per riconoscere che le due sono co-essenziali. La verità della Bibbia è sinfonica, e questa sinfonia la mantiene viva e generativa nei millenni. E se oggi volessimo provare a capire, o a immaginare, come l’umanesimo biblico giudicherebbe la nostra economia, la nostra politica, la nostra religione, avremmo bisogno delle analisi e delle cronache che ci raccontano le guerre, le conquiste, gli intrighi di corte, le ragioni di Stato; ma avremmo bisogno anche, e soprattutto, delle parole profetiche di chi sa leggere l’intimità delle donne e degli uomini della storia, delle parole di chi tra le pieghe e le piaghe delle cronache, dei verbali dei consigli d’amministrazione e le carte dei magistrati, sa leggere cose essenziali per comprendere il senso di quello che viviamo. Dovremmo cercare anche le pagine sull’Immanuel, altrimenti ci mancherà sempre la pagina più importante dei nostri racconti personali e collettivi. Questi capitoli del secondo libro dei Re sono una escalation verso il loro culmine: la caduta di Samaria, la capitale del Regno del Nord, per mano degli assiri, e la conseguente doppia deportazione (degli abitanti di Samaria in varie regioni lontane, e molti popoli e tribù deportati in Samaria per sostituire gli ebrei: cap. 17). Non fu una deportazione di massa (un documento assiro parla di 27.290 deportati, su una popolazione forse di 800.000), ma fu un evento socialmente e "religiosamente" devastante, l’evento storico più drammatico che è secondo solo alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio (nel 587). La Bibbia legge la caduta del regno del Nord e poi di quello del Sud come conseguenza della stessa infedeltà a YHWH e idolatria del popolo. I profeti sono, sostanzialmente, d’accordo con questa lettura storica, anche se in loro il peso della infedeltà "economica e sociale" è ancora più enfatizzato.
C'è una frase che racchiude, nella sua forza profetico-teologica, il senso profondo di quella fine: «Andarono dietro al nulla e divennero anch’essi nulla» (17,16). La parola ebraica che il testo usa per questo "nulla" è una parola molto cara e preziosa alla Bibbia: hevel. È la grande parola di Qoelet: tutto è hevel, tutto è vanità delle vanità. Tutto è un infinito nulla. Ma hevel è anche una delle parole che i profeti (Geremia) usano per definire gli idoli: gli idoli sono vanità, niente, un nulla (hevel) che nullifica coloro che li adorano. Seguendo il nulla diventiamo nulla: è l’eterna lotta tra fede e nichilismo, quel nichilismo che oggi sta riempiendo di nulla il mondo avendolo prima svuotato – gli umani non sanno resistere a lungo nei templi vuoti. Ma, anche qui, i profeti sanno dire altre parole oltre il nulla. Lo sanno vedere e capire meglio di ogni altro; ma, una volta visto e capito, sanno andare oltre. Il nulla dei profeti è parola penultima. E così, mentre annunciano la caduta e condannano l’infedeltà, riescono a vedere l’alba dentro questa notte nera, ad annunciare una salvezza. Amos, Isaia, Michea sono i profeti del "resto di Israele", di quella piccola speranza certa che dice che quanto sta morendo non morirà per sempre, che c’è qualcosa di vivo che continuerà la storia: «Forse il Signore, avrà pietà del resto di Giuseppe» (Amos 5,15). Michea: «Certo ti radunerò tutto, o Giacobbe; certo ti raccoglierò, resto d’Israele" (Michea 2,12). E Osea: "Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Osea 11,8). Poche cose nella Bibbia (e nella vita) sono più meravigliose della "profezia del resto".
Questi profeti dissero quindi in coro quella frase che sarà il cuore della profezia di Geremia, il cantore della distruzione di Gerusalemme: una storia è finita, ma non è finita la storia. Sono spietati nell’annunciare la fine di quanto deve finire, sono radicali nel denunciare gli errori e le cause profonde; ma i loro capolavori sono l’Immanuel, la sposa che torna, le viscere che fremono, il resto che tornerà. E lo sono perché nascono da quella spietatezza e quella radicalità, senza le quali sarebbero solo povere pagine consolatorie. Senza profeti dagli esili non si torna a casa. Perché ci manca la capacità di vedere il resto che torna mentre tutto parla di disperazione e di morte. I profeti non vedono il resto mentre lo annunciano, perché non c’è ancora. La profezia è anche il dono di generare speranze non-vane vedendole quando sono ancora invisibili. E per questo è bene comune necessario. Isaia si presentò all’appuntamento con Ahaz insieme a suo figlio, portandogli come primo messaggio il suo nome. Il figlio di Isaia si chiamava Seariasùb, che significa: "Un resto tornerà" (Isaia 7,3). Quel profeta scrisse la sua profezia del resto con il nome del figlio. Per dire qualcosa più grande di Isaia, quella parola doveva diventare carne della sua carne. È il figlio il resto che torna e salva la nostra storia, è il figlio che dice che la vita è più grande di ogni morte. In ogni bambino che nasce la speranza vince hevel. Questo la Bibbia lo sapeva molto bene, noi dobbiamo reimpararlo presto.
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