Il denaro compra il piacere e, nello stesso tempo, diventa espressione della vergogna. Non lo si comprende finché si considera il denaro solo un mezzo di pagamento o solo un dono. L’amore della prostituta si compra, non la vergogna del suo cliente. È per questa vergogna che l’uomo cerca un nascondiglio e trova quello più geniale: il denaro.
Walter Benjamin, Passages, Vol. 1
«Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza. In quel giorno mi chiamerai "Marito mio" e non mi chiamerai più "Mio padrone" (...) In quel tempo farò per loro un’alleanza con gli animali selvatici e gli uccelli del cielo (...) Ti farò mia sposa per sempre» (Osea 2,16-21). Questo dialogo del cuore, una diversa e più bella giovinezza, la reciprocità tra pari e non più un rapporto serva-padrone, una nuova alleanza che abbraccia anche gli animali e la terra, una fedeltà capace di "per sempre", sbocciano come fiore del male nel crepaccio tra i durissimi versi di accusa che li precedono (2,4-15) e il capitolo tremendo che li seguono. Quando invece estrapoliamo i soli passi di luce, le parole diventano troppo eteree e pallide per riuscire a vederle e a udirle. La luce della Bibbia (e della vita), e ce n’è molta, la troviamo solo se sappiamo cercarla accanto e dentro il suo buio.
La sua alba è stupenda perché saluta una notte molto buia. Il suo raggio di luce è quello che penetra tra nubi scure, perché i cieli troppo limpidi non conoscono i colori degli arcobaleni. Quando leggiamo questo canto di amore di Osea e lo sganciamo dal suo contesto scandaloso, ci perdiamo le sue note più belle e vere. Quelle che ci parlano di un marito, di innumerevoli mariti e di ancora più innumerevoli mogli, che dopo aver finalmente riportato un giorno a casa il coniuge infedele, in un altro giorno devono uscire di nuovo per andarlo a cercare ancora, perché è ritornato sulla stessa strada sbagliata. L’incontro salvifico con Osea è quello che il profeta ci regala durante una sosta tra un ritorno e una ripartenza, tra un tradimento e una riconciliazione. Perché questi sono i nostri incontri, quelli veri con mogli, mariti, figlie e figli, amici, fratelli. Bloccare Osea nelle sue sole pagine di consolazione significa farlo uscire dalla vita per riporlo, innocuo, nello scaffale delle consolazioni inutili perché finte.
Non deve stupirci, allora, che appena abbiamo terminato di leggere, commossi, questo inno d’amore, eccoci di nuovo nel crudo della vita del profeta: «Il Signore mi disse: "Va’ ancora, ama la tua donna: è amata da un altro, è un’adultera"» (3,1). Non sappiamo chi sia questa donna, se è la stessa del primo capitolo (1,2), cioè sua moglie Gomer, la prostituta che Osea ha dovuto sposare su comando di YHWH; né se questo è lo stesso racconto del primo capitolo con alcune varianti, oppure se i due brani sono indipendenti. Perché questa potrebbe essere un’altra donna, e quindi Osea avrebbe dovuto amare due mogli infedeli (come sostiene, tra gli altri, Alviero Niccacci, Osea 1-3: composizione e senso). La maggior parte degli studiosi crede però che questa donna sia ancora la moglie Gomer. Forse, dopo il ripudio di Osea, aveva trovato un altro uomo, o era stata comprata come schiava, magari era diventata nel frattempo una prostituta sacra, oppure, semplicemente, Gomer aveva continuato a prostituirsi - come lascia intendere il capitolo 1, che ci parla di Gomer che ebbe tre figli "di prostituzione" (1,2). Anche perché è difficile non essere d’accordo con Martin Buber quando scrive: «L’imperativo "ama" è una espressione singolare e strana: si può veramente comandare l’amore? Si può chiedere di amare una persona specifica, dove l’amare diventa così concreto? Questa parola può essere rivolta solo a uno che già ama» (La fede dei profeti, p. 113). Inoltre, il verbo che Osea usa qui per dire "ama" è ahev, che dice l’amore affettivo-sentimentale tra un uomo e una donna. Non usa la parola hesed, che avrebbe dato a questo gesto un’accezione di amore-misericordia.
Ciò che comunque conta veramente è che Osea continua a scrivere il suo libro con la sua carne. Questa donna che deve riprendere con sé dopo altri tradimenti, o quella possibile altra adultera che deve amare, sono un’esperienza reale e storica del profeta, gesti concreti e pubblici. Ma mentre Osea ubbidisce al comando profetico e compie questi gesti paradossali, assurdi e scandalosi (l’adulterio di una donna sposata era punito con la morte), non conosce il senso di quello che sta facendo. Lo fa è basta. Sono gli scribi successivi e i suoi discepoli che ci spiegano il senso dei gesti di Osea. Lui mentre li compie sta nell’ignoranza, e il solo linguaggio che capisce è quello della Voce e poi quello della sua carne. I brani dei libri dei profeti dove viene spiegato il senso dei loro gesti, in genere le seconde parti dei versetti, sono scritte da altre mani redazionali - qualcosa di analogo alla spiegazione delle parabole nei vangeli. I profeti conoscono solo la prima parte delle loro parole («Va’ ancora, ama la tua donna…»). La seconda («come il Signore ama i figli d’Israele ed essi si rivolgono ad altri dèi e amano le schiacciate d’uva») la conosciamo solo noi.
I profeti sono un versetto amputato. Vedono e ci spiegano il futuro degli altri e il futuro di Dio, ma per sé stessi riescono a vedere solo il presente, e finalmente ci somigliano. Per questa ragione le antiche parole della profezia ci parlano ancora, eternizzano l’attimo, vincono la vanitas del tempo: sta qui lo loro unica, possibile, strana e buona attualità. I dettagli dell’esecuzione del comando da parte di Osea, i particolari del prezzo, sono troppo specifici per essere solo messaggio teologico: «Io me la comprai per quindici pezzi d’argento e un homer e mezzo d’orzo» (3,2). Come nell’acquisto del campo di Geremia in Anatot (c. 32), quando i profeti ci rivelano prezzi e quantità ci stanno donando parole incarnate nella loro vita. E per chi (come me) si occupa per mestiere di economia, è forte vedere un profeta che per gli atti più solenni parla il linguaggio dell’economia e dei contratti. Anche qui la Bibbia ci spiazza perché inverte l’ordine naturale delle cose. Noi siamo abituati a pensare che per le cose veramente importanti il contratto e il denaro siano un linguaggio troppo povero e ricorriamo al dono e alla gratuità. La Bibbia usa spesso il dono e la gratuità, soprattutto quando deve parlarci di Dio; ma per gli atti umani veramente decisivi – dall’acquisto della tomba di Sarah da parte di Abramo ai due denari del buon samaritano – non usa il dono, ma contratti e denari. E così continua ad ammaestrarci alla vita.
Quello pagato da Osea (non sappiamo se alla donna o, più probabilmente, al suo uomo) è un prezzo pari circa a 30 sicli d’argento, che era il prezzo di uno schiavo, il riscatto di una donna finita in schiavitù per debiti, o il costo di una prostituta sacra. Ma siamo ancora dentro un altro ribaltamento della natura ordinaria delle cose. Nel mondo antico, il denaro entrava nei rapporti intimi tra uomini e donne nella dote o nella prostituzione. Qui il testo ci dice che Osea non sta pagando una dote, perché il pagamento sembra avere uno scopo ben preciso: «E le dissi: "Per molti giorni starai con me, non ti prostituirai e non sarai di alcun uomo; così anch’io mi comporterò con te"» (3,3). Osea dunque paga la donna per non prostituirsi. Il denaro qui svolge una funzione opposta a quella solita. La Bibbia sa che il denaro può fare quasi tutto, che può comprare persino la vita e la morte. Per questo qualcuno più tardi lo accostò a Dio, riconoscendo a mammona una natura (quasi) divina (Mt 6,24). Ma questo gesto insolito di Osea ci dice anche qualcos’altro: il denaro, lo stesso denaro, può servire per comprare persone o per liberarle. Ieri e oggi, quando accanto a uomini che pagano per quelle antiche prestazioni, ci sono altri, uomini e donne, che spendono tutte le loro energie e il loro denaro per liberare molte sorelle di Gomer da quelle strade sempre troppo affollate.
Osea paga la sua donna per astenersi dalle prostituzioni e da ogni rapporto sessuale, Osea incluso («così anch’io mi comporterò con te»). E poi, in un altro giorno, anche qui qualcuno ci ha spiegato il senso di quel gesto di Osea: «Poiché per molti giorni siederanno i figli d’Israele senza re e senza capo, senza sacrificio e senza stele» (3,4). Qualcuno che, secoli dopo Osea, ricordando l’esodo o l’esilio babilonese spiegò il significato di quel folle gesto del profeta. E poi concluse: «Poi torneranno i figli d’Israele, e cercheranno il Signore, loro Dio» (3,5). Il verbo qui usato, jasab (stare seduti), è comune nella Bibbia per descrivere la condizione dell’esilio: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo (jasabnu)» (Salmo 137). L’esilio fu anche, e soprattutto, un tempo dal quale nacque un nuovo amore, una nuova alleanza, una nuova fede. Gli ebrei si ritrovarono sconfitti, senza re, senza sacrifici e senza culto. In quel tempo senza tempio, nel silenzio della politica e della religione, rinacquero una nuova fede e un nuovo patto, che non sarebbero rinati senza la notte del culto e del potere, senza la notte di Dio. Quell’esilio, non voluto né cercato, divenne un tempo di grazia.
Dopo una grave crisi personale o comunitaria, prima di poter iniziare in una stagione migliore c’è bisogno dell’esilio e della sua tipica pedagogia. Per reimparare una nuova fede, una nuova vita e un nuovo Dio c’è bisogno dell’eclissi della precedente vita e del precedente Dio. Per ricominciare non si deve passare subito al dopo-crisi, bisogna saper attraversare questa terra di mezzo, dove imparare a ritornare poveri, dove senza tempio e senza reggia possiamo sperare di riascoltare la prima voce. I templi, religiosi e laici, si riempiono troppo velocemente di oggetti sacri che finiscono per togliere spazio alla sola cosa necessaria: la sottile voce di silenzio. E se ogni tanto non arrivasse Nabucodonosor a distruggerci il tempio resteremmo eternamente a trastullarci con le cose di Dio e non udiremmo mai il Dio delle cose. Troppe crisi non si superano perché la fretta di ricominciare si divora questo tempo intermedio di esilio, di silenzio, di povertà, di vuoto, di libertà.
Senza l’esilio non avremmo avuto la Bibbia, avremmo smarrito la memoria dei profeti, senza il suo buio non avremmo visto e seguito nessuna stella. Nell’esilio si impara Natale.
l.bruni@lumsa.it