Quasi tutte le idee lanciate da Geremia a quest’epoca si ricollegano alla legge; quasi tutte le immagini da lui utilizzate sono attinte dallo stesso patrimonio, ormai secolare, della profezia biblica. Tutto questo non è che un esercizio, un apprendimento
André Neher, Geremia
«Così mi ha parlato YHWH: "Va a comprarti una cintura di lino e mettila attorno ai tuoi fianchi senza immergerla nell’acqua". Allora io comprai la cintura secondo la parola del YHWH e me la misi ai fianchi. Poi mi fu rivolta ancora la parola di YHWH: "Prendi la cintura che hai comprato (…) va all’Eufrate e nascondila là dentro la fenditura di una pietra"» (Geremia 13,1-4).
Va. I profeti ricevono ordini da Dio, precisi, dettagliati, meticolosi. Parole che chiamano per nome oggetti, fiumi, pietre. Sono istruzioni per svolgere una missione speciale, una mappa per un viaggio in un territorio inesplorato, un’esecuzione testamentaria. Un mandato a fare, non solo a dire: la bocca dei profeti è il loro corpo. Parlano dicendo, parlano facendo. Parlano con la bocca, con le mani, con i piedi, con le gambe, con la schiena.
L’esperienza della verità della parola che gli parla, e la capacità di distinguerla dalla non-verità dei falsi profeti, è però un processo lento e spesso molto lungo, che a volte può durare anni, decenni, forse tutta la vita di un profeta. La fioritura di queste vocazioni segue un cammino scandito da fasi precise, che lo studio della Bibbia e della vita ci può insegnare a conoscere e riconoscere.
All’inizio c’è una comunità dove il giovane profeta nasce, dove convivono buone e cattive persone, veri e falsi profeti. Le comunità vere sono sempre meticce e spurie. Una vocazione profetica non può che crescere e svilupparsi dentro una o più comunità, a partire dalla prima comunità famigliare. Sebbene nulla più della profezia dica individualità e dialogo personale tra due "tu", anche la profezia è una pratica, e quindi una faccenda sociale e comunitaria. I profeti sono inviati a comunità concrete, sono incarnati nella terra e nella storia di un luogo e di un tempo; le loro critiche, cure, domande, sono incastonate nel vissuto quotidiano della propria gente.
Dentro questa prima comunità si compie la prima chiamata, la vocazione, che è l’evento fondamentale e assolutamente individuale. Dopo la vocazione, però, troviamo di nuovo la comunità, a volte quella di prima, altre volte una nuova comunità profetica, dove il giovane si forma, cerca uno o più maestri, compagni di vocazione. L’idea che i profeti siano degli uomini solitari, che vengono al mondo già formati e perfetti per svolgere la loro missione o ammaestrati soltanto da Dio nel loro intimo, appartiene alle rappresentazioni artistiche o ai romanzi, non alla realtà storica. Nella formazione vera dei profeti, le voci e le parole dei Battista e degli Anania sono alleate necessarie della voce di YHWH. Profeti si nasce, profeti si diventa, imparando nel tempo a essere ciò che si era già nel seno materno.
Questa dimensione temporale e diacronica della vocazione profetica, spiega perché i primi capitoli del libro di Geremia non sono così originali, nonostante alcuni lampi luminosissimi di genio. Van Gogh imparò a disegnare: all’inizio era già Van Gogh per vocazione, ma ancora non conosceva le tecniche di pittura. Nei suoi primi colpi di pennello si intravvedeva già il grande genio, ma abbiamo dovuto aspettare anni per avere i suoi capolavori. Anche Geremia ha imparato a essere profeta, perché la profezia è carne e sangue, e vive delle loro leggi e tempi. E così, nella prima fase della sua attività di giovane profeta, Geremia inizia a conoscere i grandi profeti biblici che lo avevano preceduto, studia la Torah, la tradizione dell’Alleanza, le storie dei patriarchi. Il giovane profeta cerca la sua propria identità, e inizia a scoprire il suo specifico profilo profetico che troverà nella maturità. Allora per capire e toccare in profondità i libri profetici che si svolgono e scrivono nel tempo, dobbiamo imparare ad attendere, dobbiamo accompagnare il profeta nella sua crescita. La parola cresce insieme ai suoi scrittori, e noi cresciamo insieme ai profeti se li sappiamo aspettare. La scrittura è madre, la scrittura è sposa; ma la scrittura è anche figlia di chi la sa attendere mentre cresce, e le pone le domande al momento giusto, né prima né dopo – troppe volte non troviamo le risposte nella Bibbia perché le facciamo nel momento (kairos) sbagliato, fuori tempo.
La cerniera tra la fase giovanile e quella della maturità di Geremia (e dei profeti in genere), è rappresentata dal conflitto e dall’emancipazione dalla prima comunità. Infatti, nello sviluppo della sua vocazione, Geremia inizia a dubitare non solo della sua famiglia (capitoli 11 e 12 ) ma anche della sua stessa comunità profetica. Il popolo è oppresso dalla siccità e dalla fame, e Geremia chiede a Dio: «Ahimè, Signore Dio! Dicono i profeti: "Non vedrete la spada, non soffrirete la fame, ma vi concederò una pace autentica in questo luogo"» (13,13). Non siamo ancora alla vera e propria lotta che Geremia ingaggerà con i falsi profeti nei capitoli successivi della sua vita e del suo libro. Queste sue parole ci suggeriscono, invece, un giovane profeta ancora confuso, che si trova dentro la comunità che lo ha cresciuto e ammaestrato e della quale si fida, ma chiede ragione a Dio di un nuovo contrasto interiore che inizia ad avvertire. Il contrasto tra le parole che gli nascono dentro e quelle che sente pronunciare dagli altri profeti.
Questa è una tappa cruciale delle vocazioni profetiche, soprattutto delle più grandi – come è quella di Geremia. La possiamo comprendere se teniamo presente che in Israele la profezia era anche una specie di mestiere. Erano centinaia, forse migliaia i nabi (profeti) che si aggiravano per il paese raccontando visioni, compiendo gesti bizzarri e profetizzando scenari cupi e apocalittici. Avevano un abbigliamento tipico (es. il mantello), ed erano ben riconoscibili in mezzo al popolo e attorno al tempio. Non tutti questi profeti erano "falsi" o impostori. La maggior parte erano semplicemente profeti di mestiere, che si limitavano a ripetere i alcuni versi di Isaia o di Amos, e sulla base della loro conoscenza della sapienza della tradizione profetica riuscivano anche a dare qualche buon consiglio o, comunque, a trovare qualche ascoltatore e discepolo. Nella prima fase della sua vita Geremia sarà stato uno di questi nabi, mescolato tra i tanti di cui non abbiamo più alcuna traccia.
Un giorno, però, quel profeta già diverso inizia a capire che le sue parole non sono come quelle dei suoi "colleghi", perché la voce che gli parla dice cose diverse da quelle che sente dire dagli altri: «Il Signore mi ha detto: "I profeti hanno proferito menzogne nel mio nome; io non li ho inviati, non ho dato loro ordini né ho parlato loro. Vi annunciano visioni false, predizioni che sono invenzioni e fantasie della loro mente"» (13,14). Geremia acquista la consapevolezza del suo essere diversamente profeta. Una diversità che per stagliarsi in tutta la sua forza, ricorre a quell’insieme di parole sintetizzato dall’espressione falsa profezia. Dal punto di vista storico, è difficile immaginare che tutti i nabi del tempo di Geremia fossero falsi profeti, inventori e cantori di menzogne – anche se Geremia lo scrive. Come in tutti i mestieri, i buoni e i cattivi profeti avranno convissuto fianco a fianco anche nel suo tempo.
Qui, però, la questione è diversa e molto importante. Non è solo la Legge a svolge la funzione di pedagogo (San Paolo), che deve lasciar spazio allo Spirito quando si diventa adulti. Anche la comunità profetica è un pedagogo, e se non sa scomparire quando il fanciullo si affaccia sull’adultità, impedisce ai giovani di sbocciare. Al tempo stesso, la comunità non può che contrastare questo sbocciare, come il seme che si trova contrastato da quella terra che lo aveva custodito, che se non viene forzata e bucata non si avranno né spiga né frutto. C’è un giorno, un momento, in cui chi ha ricevuto una vocazione profetica può sentire l’urgenza di lasciare la comunità dei profeti per mestiere per diventare qualcosa di diverso che neppure lui/lei conosce ancora. Si inizia una nuova tappa tutta diversa, e quasi sempre da soli. Questo "volo" prende spesso le forme di un giudizio duro nei confronti della comunità, che può assumere le stesse parole di Geremia: falsità e menzogna. Nella storia, non sempre la falsità e la menzogna della prima comunità sono reali, ma sono reali nell’esperienza soggettiva di chi deve spiccare quel folle volo.
È così che nascono le grandi innovazioni, anche quelle spirituali. Una distruzione creatrice che nell’esperienza profetica prende la forma della "distruzione" della profezia degli altri per poter "creare" la propria.
Tutti gli altri profeti colleghi di Geremia non avranno sentito alcun bisogno di distruggere le parole degli altri, semplicemente perché non avevano nulla da creare. La grande innovazione profetica ha bisogno delle macerie della tradizione per costruire la propria cattedrale. È questa un’altra analogia tra profezia e carisma: entrambi innovano "distruggendo" le loro istituzioni e le loro parole. Ma – e questo è un problema decisivo – accanto ad un profeta vero che distrugge per creare ce ne sono mille di falsi o di cialtroni che distruggono e basta. Quando in una comunità profetica un giovane entra in conflitto con le parole degli altri fino a sentirle e a chiamarle "false" e "menzognere", è possibile che ci troviamo dinanzi allo sbocciare di una vocazione profetica genuina, che per poter svolgere il proprio compito e la propria missione di salvezza non può che distruggere e poi creare, ferire la terra per poter fiorire seguendo la legge inscritta nel proprio codice genetico spirituale. Molte vocazioni non sbocciano e vanno a male solo perché non si dà modo né tempo al conflitto di generare. La comunità originaria non riesce a vedere la benedizione nella ferita della sua terra, non può vederla. Ma il profeta può comunque sbocciare se riesce a restare dentro questo conflitto doloroso fino ad abitarlo, se non cede alla tentazione di ritornare nella comunità dei nabi ordinari e innocui. Troppi profeti non riescono a fiorire perché resistere nella distruzione creatrice è molto doloroso: «I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare» (14,17). Ma tutte le volte che una vocazione muore sotterrata, petali coloratissimi scompaiono dall’infiorata della terra.
l.bruni@lumsa.it
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