Manifestazione di cristiani a New Delhi, nel 2010, contro la persecuzione della Chiesa in Orissa - Ansa/Harish Tyagi
Sono passati quasi dodici anni dalla persecuzione anticristiana che impose l’Orissa all’attenzione mondiale, facendone non soltanto il teatro di drammatici eventi che né il tempo né la giustizia hanno finora cancellato, ma anche un tragico esperimento di un recupero di "indianità", ovvero di sottomissione, con la forza se necessario, dei gruppi che tradizione, casta o fede hanno relegato ai margini della società induista maggioritaria.
Oggi l’Orissa (Odisha nella ritrovata scrittura locale, ufficiale dal 2011) non ha cancellato la paura e le conseguenze per decine di migliaia di sopravvissuti a quella persecuzione, ma sembra in grado di garantire rispetto per le sue minoranze sotto il governo guidato da Naveen Patnaik, erede di una dinastia politica che in tempi recenti ha portato a questo Stato dell’India orientale qualche benessere ma soprattutto il bene più prezioso perché raro nell’India contemporanea: la convivenza. Quella convivenza che sa appoggiarsi sulle tre 'anime': tradizionale, moderna e tribale, e che si gioca sui fili sottili di una rete di interessi, tradizioni e necessità. La stessa che coinvolge la capitale Bhubaneswar, città dalla storia antichissima e oggi tra le più vivibili e a più rapido sviluppo dell’India; centro del terziario avanzato, dell’istruzione superiore e di smistamento di milioni di visitatori, anzitutto pellegrini attratti dalla sua eredità storica e dalla molteplicità delle sue architetture religiose prima di avviarsi verso gli eccezionali complessi templari di Konarak, Puri e la vicina costa del Golfo del Bengala.
Le attrattive non mancano nemmeno all’interno dello Stato, però, dove ancora persiste la realtà di etnie e culture eredi di un passato remoto. Un’anima ancestrale in simbiosi con una natura ancora oggi dominante di colline, foreste, fauna selvatica e una infinità di risorse vegetali che sono anche ricchezza da proporre e scambiare sui mercati e nelle fiere. Questi i soli punti di contatto, se si escludono l’amministrazione civile e le scuole, della sessantina di gruppi tribali e aborigeni con la società maggioritaria, perlopiù di fede indù. Un mix di tradizioni caratterizza e allo stesso tempo differenzia l’Orissa in un’India dove la diversità è norma, ma la vera integrazione è da sempre lontana. Nei giorni in cui a Delhi, Mumbai, Calcutta. Hyderabad e Bangalore esplodeva la rabbia per la Legge sulla cittadinanza, che concede una via privilegiata per l’integrazione a indù, sikh, parsi e cristiani profughi da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh in quanto perseguitati, ma ne esclude i musulmani, l’Orissa sembrava ancora una volta sospesa nel tempo e, come il tempo, neutrale nei conflitti che attraversano l’immensa patria indiana, come si è visto nelle tornate elettorali che hanno interessato negli ultimi mesi anche Stati circostanti.
A tratti, percorrendo gli interminabili saliscendi su nastri d’asfalto che sembrano scavati nel verde intenso della giungla, si percepisce la grandezza dell’India. La sua immensità, la varietà di ambienti e di genti, la capacità di valorizzare e insieme di tramandare ogni singola esperienza. Si comprende anche come questa dimensione apra alla fragilità, come tutto ciò che non prevede altro che la propria grandezza, che valuta ogni cosa in termini di eternità e si scopre inadeguato all’oggi. L’alterità dell’Orissa aiuta a cogliere anche i limiti dell’esperienza religiosa, che è oggi alla base di tanti problemi dell’India indipendente, come mai nella sua storia millenaria. Cavalcata per ultima da un radicalismo indù che sul piano sociale miscela appartenenza per nascita ed esclusione, in politica propugna tecnocrazia e nazionalismo, nella fede convalida anzitutto ritualità e opere.
Nulla sembra più lontano della realtà multietnica dell’Orissa, dove ciascuna società tribale mantiene nei propri territori usi, costumi e pratiche religiose sovente di tipo sciamanico. In modo esclusivo per alcuni gruppi minori e più isolati, ma accogliente nei confronti di altre fedi, se rispettose delle tradizioni ancestrali, per le etnie più numerose e diffuse territorialmente. Una realtà umana che condivide con la consistente presenza fuoricasta la sorte di esclusione e – per quanto riguarda i convertiti al cristianesimo nei due gruppi – cerca di resistere alla pressione per la riconversione all’induismo. La molteplicità e la vicinanza dei vari gruppi nella storia attenuano il rischio di rivalità; al resto provvedono leggi locali o federali che contribuiscono al rispetto delle diversità, della convivenza ma anche alla tutela dall’eccessiva pressione esterna. Come per la natura, che ha cicli noti ma anche variazioni inattese, nemmeno in Orissa tutto è pacifico, coerente con gli ideali nazionali o con le aspirazioni delle minoranze. Ad esempio, l’impegno che coinvolge tutte le tribù dell’India, di fare accogliere le pratiche animiste (sarna) tra le religioni riconosciute, è stato finora eluso e i censimenti hanno sempre inserito di default tribali e aborigeni tra gli indù. Nemmeno mancano tensioni e incomprensioni, come testimonia il rinnovato braccio di ferro a gennaio, proprio in Orissa, tra autorità locali e gruppi minoritari per impedire il tradizionale olocausto di bovini durante il festival di Khairguda – nonostante un verdetto della Corte Suprema del 2017 che ha intimato di rispettare i riti tradizionali.
L'Orissa oggi, più che per le proprie diversità, tensioni, limiti e – sovente – catastrofi naturali soffre della disattenzione dello Stato centrale, a partire dalla mancanza di investimenti adeguati nel settore educativo che rende ancora più difficile ai giovani trovare alternative a lavori 'poveri'. Migliorano le vie di comunicazione, Internet va diffondendosi e la gestione delle acque garantisce in condizioni normali un adeguato approvvigionamento idrico all’agricoltura e alla popolazione, ma lo sviluppo che il governo centrale nazionalista promuove altrove a tappe forzate qui fatica a manifestarsi. Per molti, una situazione non del tutto negativa per lo spazio che concede alla conservazione delle caratteristiche locali, alla ricerca di compromessi tra le necessità di sviluppo e di conservazione, sia ambientali, sia culturali.
Come suggerisce Srikant Mishra, antropologo, appassionato divulgatore della realtà della sua terra, l’Orissa invita a 'guardare oltre' l’apparenza di una regione povera, ampiamente rurale, sotto la media nazionale quanto a reddito pro-capite, scolarità e servizi e dove spiccano per contrasto alcune aree di recente sviluppo ed eccellenza. Perché la sua vera anima è dove altari, totem e templi dimenticati sono assorbiti dalla natura; è nei villaggi, dove isolamento e povertà sono quanto altri percepiscono di una scelta di indipendenza ed essenzialità; è nel pellegrinaggio e nella coralità di grandi eventi religiosi. Come a Puri, sul luogo dove da nove secoli sorge il tempio dedicato a Jagannath e un asceta diede alla divinità una forma senza mani né piedi perché una regina impaziente interruppe la sua opera creatrice avviando una disarmonia mai sanata tra umanità e cosmo.