ll rapporto di Mediobanca e uno scenario post-europeo Il tema dell’euro è uno dei più importanti e divisivi su cui si gioca la contesa tra maggioranza e opposizione alle prossime elezioni. È un tema quasi sempre affrontato in modo concitato e ideologico. Per questo il recente rapporto Mediobanca sulle conseguenze finanziarie di una eventuale Italexit ha il pregio di fornire l’appoggio di ipotesi e cifre su cui fondare un ragionato dibattito. Il titolo del rapporto (tradotto dall’inglese “Il rischio ridenominazione in altra valuta del debito italiano si riduce nel tempo”) è una perfetta sintesi dei suoi contenuti che spiegano con dovizia di particolari perché gli eventuali effetti finanziari positivi di un’uscita dell’Italia dall’euro sono di fatto svaniti. In estrema sintesi lo stesso rileva che da qualche tempo i nuovi titoli di debito pubblico emessi dal nostro Paese contengono una clausola (Cac) che consente a una minoranza di creditori di impugnare con successo di fronte ai tribunali un’eventuale ridenominazione in valuta svalutata.
E che un’altra parte importante di debito pubblico è, per effetto del quantitative easing, nelle mani di Banca d’Italia che lo ha acquistato tramite un prestito contratto con la Bce (il qe non è proprio un pasto gratis, direbbe qualcuno). Gli autori ipotizzano dunque ragionevolmente che, in caso di uscita dell’Italia dalla moneta unica europea, la quota di debito con clausola Cac non potrà essere convertita. Per effetto di una svalutazione attesa della lira al momento dell’uscita del 30% quella parte di debito pubblico in euro farà aumentare di colpo il rapporto debito/Pil oltre il 160%. Gli autori ipotizzano anche che la Bce consentirà benevolmente alla Banca centrale nazionale di saldare solo il 50% del suo debito. Nonostante questa ipotesi favorevole il beneficio dell’uscita sarebbe soltanto di 8 miliardi e svanirebbe dall’anno seguente in poi al crescere della quota del debito emesso con clausole Cac.
Il rapporto inoltre ammette di non considerare gli effetti di Italexit sul debito in euro dei privati, anch’esso sottoposto a rivalutazioni e cause legali portando di fatto al fallimento gli intermediari più indebitati (tra i quali potranno esserci imprese, banche e assicurazioni). Dunque l’uscita dall’euro implicherebbe il fallimento tecnico del Paese, una serie di fallimenti di intermediari privati (che andrebbero nazionalizzati) e una combinazione di inflazione e svalutazione che ridurrebbe immediatamente il valore di debito e ricchezza nel Paese. Senza contare l’incertezza ingenerata, dopo un episodio del genere, nei rapporti coi mercati internazionali ai quali dovremmo rivolgerci per avere credito. Tutto da dimostrare è anche che un’uscita dalla moneta unica migliori il nostro saldo commerciale e la nostra produttività, dato che il legame con queste due variabili appare ormai assolutamente opinabile nell’attuale economia globalizzata. I risultati del rapporto Mediobanca sono di fatto una pietra tombale sugli eventuali benefici di un’uscita unilaterale non concordata dell’Italia dall’euro. E rendono tale minaccia un’arma spuntata in sede di trattative per ottenere eventuali benefici.
Anche se c’è un corto circuito in casa e un rischio incombente d’incendio, nessuno si butterebbe dal balcone sapendo di essere a cinque piani da terra. E nessun medico sottoporrebbe a una rischiosissima operazione un paziente sapendo che gli esiti dell’operazione sono oltremodo incerti e che è possibile guarire altrimenti. Restano le storture dell’Eurozona che ben conosciamo e la manifestata inadeguatezza di un sistema privo della valvola di sfogo del cambio (e senza correzioni per le asimmetrie di surplus e deficit dei Paesi membri) a rispondere a choc come quelli della crisi finanziaria globale o, all’opposto, di un minuscolo Paese membro come la Grecia. Gli obiettivi che dobbiamo avere per rendere l’Eurozona un sistema migliore sono noti a tutti: un’assicurazione comune dei depositi bancari, un sussidio europeo di disoccupazione attivo e inclusivo che integri le misure nazionali, robuste politiche fiscali espansive a livello comunitario, una “bad bank” europea fino al traguardo della condivisione dei rischi e del debito.
Lavorando da subito per eliminare due palesi storture come il Fiscal Compact e la concorrenza fiscale attraverso la quale alcuni Paesi membri incoraggiano pratiche fiscali elusive, sottraendo di fatto base fiscale agli altri e chiedendo contemporaneamente a quegli stessi altri il rispetto delle regole del deficit. Qual è dunque la via migliore per correggere queste storture e quale potere contrattuale abbiamo di fronte ai nostri partner nel caso non concordassero con la nostra visione (visto che quello della minaccia dell’Italexit di fatto non esiste)? Le risposte sono sostanzialmente due. La prima è convincerli che non riuscire a ricreare un serio processo di convergenza (non solo nel Pil, ma anche e soprattutto sui tassi di disoccupazione e sulla qualità del lavoro) rende l’Eurozona politicamente insostenibile, alimenta populismi e sovranismi e porta al collasso (prima politico che economico) della moneta unica. La seconda è l’adozione di una strategia che si proponga di “migliorare” comunque il modello, iniziando a non obbedire ciecamente a regole che altri non rispettano.
In concreto, allo stato delle cose, questo significa che non ha senso rispettare alla lettera il Fiscal Compact varando in Italia una legge di bilancio recessiva nel 2018 (per passare dal 2,4 all’1,2% del rapporto deficit/Pil) quando i rapporti deficit/Pil di Francia e Spagna e il surplus commerciale tedesco sono palesemente fuori norma (e gli accordi europei di ripartizione dei migranti sono violati). Ciò non implica alcun disastroso lassismo, ma solo la determinazione a considerare la discesa del rapporto deficit/Pil e debito/Pil obiettivi validi e da perseguire, ma secondo strategie ragionevoli e ragionevolmente definite a livello nazionale. Finché l’Eurozona non realizzerà i cambiamenti sopra auspicati. È evidente che la premessa di tutto questo è che l’Italia possa far valere in Europa il suo peso politico ed economico grazie a una “voce” autorevole perché sensata, forte e concorde.