Si fa tanto parlare di «diritti umani» in Europa, ma se l’Europa vuole continuare a essere la maggiore piattaforma di «diritti umani» che la civilizzazione umana ha conosciuto, dovrà urgentemente porsi il problema di una demografia a sostegno dei «valori» – che non sono riducibili a quelli di mercato – cui ha messo capo la sua storia. Solo così li potrà sostenere con qualche capacità di incidenza sulla scena geopolitica globale di questo inizio di millennio.
La demografia europea, la sua inarrestabile denatalità, è una situazione che merita una considerazione la più attenta possibile. Non solo sotto il profilo socio-economico, come prevalentemente si fa, in analisi centrate sulla marginalizzazione del peso economico e geopolitico dei Paesi in progrediente denatalità, e sul rischio della sostenibilità sociale del loro impoverimento demografico. Ma anche sotto un profilo che si tende a sottacere, perché forse politicamente poco corretto, per il timore di cedere al lessico e alle suggestioni dello «scontro di civiltà». E cioè sull’incidenza geopolitica della civilizzazione europea, come sistema di valori, culturali, religiosi, politici, quando questa civilizzazione si sia ridotta da qui al 2050 al 7% della popolazione del globo. Perché questa è la previsione delle più accurate analisi statistiche. Con un decremento impressionante che sta nei numeri: 25% nel 1910, 22% nel 1950, 10% nel 2014. Un processo che, per esempio, è speculate e opposto all’aumento del peso demografico dell’Africa: passato da 9% a 16% tra il 1950 e il 2014, balzerà al 25% nel 2050. Con una difficoltà strutturale, per altro, a invertire il trend in atto, perché le dinamiche di declino demografico dell’Europa e dei Paesi “ricchi” sono sostenute da due fattori: 1) il maggior indice di natalità dei Paesi meno sviluppati e l’abbattimento della natalità europea a livelli ben lontani dal mero rimpiazzo della popolazione; 2) la difficoltà di efficaci politiche di promozione della natalità, molto più problematica da “spingere” in alto a confronto delle politiche di controllo della natalità.
In un mondo che si globalizza in un contesto di “confronto” insieme cooperativo e competitivo, dell’Europa e dei suoi valori ci sarebbe ben bisogno, perché la bilancia penda dal lato dell’integrazione cooperativa, piuttosto del confronto competitivo. In questo scenario di “transizione demografica” che a fine secolo dovrebbe consegnarci una stazionarietà demografica e geodemografica (equilibrio di rimpiazzo tra nascite e morti, fine dell’incidenza del ricambio popolazione per migrazioni) tendenzialmente stabilizzata in linea con gli scompensi descritti a danno dell’area europea, sono generalmente posti sotto osservazione gli aspetti ambientali, socio-economici, geopolitici; e la loro sostenibilità negli scenari previsti. I focus di attenzione sono il peso dell’impronta ecologica, gli scompensi demografici in quanto tali, la capacità di regolazione delle popolazioni moderne nella forbice tra riproduttività e migrazioni (tra ricambio biologico e ricambio sociale), l’insostenibilità sia dell’esplosione che del declino demografico, le conseguenze geopolitiche delle alterazioni geodemografiche, il controllo dei flussi migratori, la sostenibilità sociale della lunga vita, la “trappola malthusiana” sempre in agguato nelle aree economicamente deboli sotto la pressione dello sviluppo demografico. Manca in questi focus un’adeguata attenzione allo squilibrio della competizione valoriale sulla scena della globalizzazione, che le dinamiche demografiche e geo-demografiche porteranno con sé.
Il punto, per l’Europa, non è tanto la crisi della sua identità etnica, culturale, sociale. I musulmani, ad esempio, non supereranno i 30 milioni attorno al 2030. Una minoranza importante (il 5-6% della popolazione), ma da qui a temere che una “marea islamica” sommerga la civiltà europea, ce ne corre. Il punto non è la civilizzazione europea in Europa, ma la sua espansività valoriale fuori dell’Europa come rischio valoriale globale connesso alla denatalità europea. Soprattutto se si assumono, ed è giusto farlo, i valori della dignità della persona e della democrazia, più che il “mercato”, come tratto distintivo di questa civilizzazione (espressa nell’immagine delle “radici d’Europa” che sono e restano cristiane, nonostante l’inconsapevolezza del dibattito che le ha volute postdatare all’Illuminismo). In effetti, ce ne rendiamo sempre più conto, è il “mercato” il vero valore universale che l’Europa ha esportato con successo (fin troppo) nel mondo globale. Un valore che però ha dimostrato, per il suo attecchire e imporsi in altre aree culturali e di civilizzazione, di non aver bisogno dei valori d’accompagno politici e umani legati alla dignità della persona e alla democrazia. Anzi, la sua diffusione molto deve alla capacità di esonerarsi dall’impegno ai valori della dignità della persona e della democrazia liberale. Anche perché l’esportazione che ne ha fatto l’Europa è stata quella di un “individualismo proprietario” sempre meno garanzia della libertà e dell’autorealizzazione della persona, sempre meno “mezzo” della persona, e sempre più fine in sé; anzi piuttosto incline a cancellare e umiliare la persona la cui autorealizzazione era nato per sostenere. Risolvendosi come proposta globale di un “individualismo mercatorio”, magari di Stato o oligarchico, che dei valori liberaldemocratici, e della dignità della persona, non si fa affatto problema.
Con l’effetto di rimbalzo per l’Europa che, per reggere la competitività del tipo di mercato globale che ha generato, essa è spinta a mettere da parte proprio i valori dell’individuo che con il mercato voleva emancipare dalle attribuzioni di ruolo tradizionali (sociali, economiche, valoriali). Potente fattore di frustrazione identitaria per un Occidente europeo che avverte di stare perdendo proprio quando credeva di vincere facile sul campo di gioco che aveva posto, e imposto: il primato del mercato.
In termini di geodemografia prevedibile, c’è una riserva strategica valoriale per l’Europa cristiana nel senso sopra descritto, che possa essere affidata ai numeri geodemografici della civilizzazione cristiana extraeuropea? C’è, ed è una riserva su cui la Chiesa alle prese con la globalizzazione, non solo del dialogo interreligioso, da Paolo VI (stiamo celebrando i 50 anni della Populorum progressio) a Francesco sta investendo da decenni. Qui va comunque valutata la differenza europea, per dirla all’ingrosso, in termini di resistenza all’individualismo mercatorio di stampo anglosassone, e all’interpretazione lasca dei valori di democrazia liberale in molte aree della civilizzazione cristiana extraeuropea. E se il bisogno d’Europa, come ritorno alle radici solidaristiche dell’esperienza cristiana della vita, ovviamente nella dimensione laica (diritti, aspettative, bisogni umani e materiali) che ha storicamente acquisito, non sia poi – nelle tante periferie morali e materiali di oggi – il vero e determinante contributo “politico” che l’Europa può recare alla governance della globalizzazione nel tragitto del compimento della transizione demografica.