Negli atenei italiani è tempo di cerimonie di inaugurazione dell’anno accademico e le lezioni sono già avviate. In alcune facoltà è anche mese di lauree, che coronano il curriculum studiorum degli allievi e l’opus docendi dei loro professori. Lo studio e la ricerca sono senza sosta e si intensificano con la ripresa delle attività dipartimentali dopo l’estate. Per i rettori è l’occasione di tracciare un bilancio dell’anno che termina e guardare in avanti al lavoro che aspetta docenti, ricercatori, studenti e personale amministrativo, non senza esprimere desideri e timori sulle riforme incompiute o attese e un lamento, ormai di rito, sulla scarsità delle risorse a disposizione.
Nella settimana che si chiude, al di là di queste dovute considerazioni, a far alzare lo sguardo sull’università - una realtà viva e vivace di professori, studiosi e studenti - sul suo scopo e sugli orizzonti della ragione indagatrice ed educatrice dell’humanum che è in ogni componente della comunità accademica, è stata una provocazione benedetta proveniente dall’Università di Macerata. Benedetta non solo perché origina da una preghiera, l’Ave Maria, suggerita per invocare la pace da una docente in aula e ha ricevuto la "benedizione" (secondo l’etimo, il "dire bene" di qualcosa o qualcuno) del vescovo Nazzareno Marconi, ma anzitutto perché ha propiziato la grazia di un risveglio della coscienza universitaria. Un prezioso barlume di consapevolezza della natura e del compito di quel luogo singolare di formazione scientifica, culturale, personale e sociale che chiamiamo università, consegnatoci dalla storia europea della educazione superiore come l’istituzione elettiva per lo sviluppo di una civiltà del sapere senza recinti, del saper fare con perizia, e del pensare e fare per e insieme con gli altri.
Un "risveglio del gigante", la ragione che abita in noi e accende la coscienza di tutto. La sorgente di quella apertura "universale" (da qui, università) ai fattori della realtà, propria della formazione accademica, senza censurarne nessuno, non escluso quello vertiginoso – dischiuso dalla categoria suprema della ragione – della possibilità indeducibile e sorprendente che il Mistero di cui tutto è fatto si sia reso presente e familiare attraverso una di noi, Maria di Nazareth. Il vescovo di Macerata ha, infatti, ricordato «che la preghiera è una forza, una potenza che può mettere paura a qualcuno». Il risveglio della recta ratio, della giusta coscienza di sé e del mondo, per provocare il quale la preghiera ha forza più di altro, genera timore in chi preferisce la tranquillità del sonno della ragione (strumentalizzata) e della coscienza (impoverita e immemore).
La preghiera, espressione del senso religioso che alberga nel cuore di ognuno, credente o non credente, come tensione dell’intelligenza e della libertà verso la verità ultima, non è ostile a nessun universitario, né nemica della laicità di un ateneo. Proprio in quanto "laica", cioè aconfessionale, per storia e vocazione culturale e sociale l’università è aperta all’universo dei saperi, delle capacità ed esperienze umane e della domanda infinita sul significato e il valore della vita e del mondo. Ricordando l’origine medioevale della Universitas, agli albori legata alla cattedra del vescovo (non solo ma anche per questo, egli ha titolo a dire una parola su di essa), Benedetto XVI, nel 2012, affermava che quando l’uomo diventa «ricco di mezzi, ma non altrettanto di fini, […] quella che è stata la feconda radice europea di cultura e di progresso sembra dimenticata.
In essa [l’università], la ricerca dell’Assoluto – il quaerere Deum – comprendeva l’esigenza di approfondire le scienze profane, l’intero mondo del sapere. La ricerca scientifica e la domanda di senso, infatti, pur nella specifica fisionomia epistemologica e metodologica, zampillano da un’unica sorgente, quel Logos che presiede all’opera della creazione e guida l’intelligenza della storia». Su questa ricerca e su questa domanda senza confini si fonda la libertà dell’università, una declinazione della libertà di pensiero ed espressione e una condizione delle moderne democrazie liberali, di quelle società aperte in cui non esistono dottrine di stato né censure agli orizzonti della ragione.