«Arrivano i francesi e (forse) anche i tedeschi». Potrebbe essere il titolo di un film sugli ultimi anni del capitalismo italiano. I casi recenti sono noti: le Generali nel mirino di Axa e Allianz, l’acquisizione dei fondi comuni di investimento Pioneer da parte della francese Amundi, la fusione tra Luxottica e Essilor che sembra sempre più un’acquisizione posticipata da parte dei francesi, Vivendi che controlla Telecom e insidia l’impero Berlusconi. In realtà ci si sveglia in ritardo: il problema non è nuovo e data almeno all’inizio della crisi finanziaria.
Prima del 2007 le operazioni di fusione/acquisizione tra Francia e Italia erano più o meno equilibrate, da allora abbiamo avuto operazioni di acquisizione dalla Francia all’Italia per 52 miliardi e operazioni di segno opposto per soli 8 miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni, aziende francesi in Italia si sono comprate banche (Cariparma e Bnl), il latte di Parmalat, lo zucchero di Eridania, i gioielli di Bulgari e Pomellato, marchi della moda come Loro Piana e Bottega Veneta, pezzi del mondo dell’energia (Edison e Acea) e delle infrastrutture (Grandi Stazioni e Ntv).
Se guardiamo ai fondamentali del nostro Paese le cose non tornano: è vero che l’economia italiana cresce meno di quella francese, e che in particolare abbiamo una minore crescita della produttività, ma possiamo contare comunque su un peso della manifattura rispetto al Pil superiore a quello transalpino e abbiamo un tessuto produttivo capace di esportare, mentre la Francia importa più di quanto esporta. La nostra industria è in difficoltà, ma resta vitale: dopo la crisi finanziaria le aziende presenti sui mercati internazionali hanno continuato a guadagnare quote. Allora perché questo lungo elenco di acquisizioni? Molte ricostruzioni liquidano i mali del capitalismo italiano riducendoli a un binomio: 'nanismo' delle imprese e influenza del 'salotto buono'.
C’è del vero, ma è solo una parte della storia. Il nanismo ha a che vedere con il fatto che in Italia abbiamo un numero assai elevato di aziende di piccola dimensione, molto più che in altri Paesi europei. Questo aspetto può rappresentare un punto debole in quanto l’apertura dei mercati richiede aziende di grandi dimensioni capaci di competere su più fronti. Il capitalismo italiano ha mostrato tutti i suoi limiti nell’accompagnare le aziende nel processo di crescita: modesto ricorso al mercato dei capitali (obbligazionario e azionario), eccessivo ricorso al credito bancario.
Nel glorioso dopoguerra le aziende delle famiglie storiche del capitalismo italiano si sono affacciate alla Borsa, ma i proprietari hanno continuato a tenere ben salda la barra del timone. Per puntellare posizioni sempre più deboli (banalmente non avevano i denari per investire o per ricoprire le perdite), hanno utilizzato tutta una serie di strumenti difensivi (patti di sindacato, scatole cinesi...) che permettevano loro di controllare le aziende anche con una quota molto limitata di azioni. Era il mondo del cosiddetto 'salotto buono', che ha retto fino a quando le barriere nazionali sono scomparse. Di fatto dagli anni 90 in poi difendere l’italianità di un’azienda è diventata una missione praticamente impossibile.
Ma facciamo un passo indietro: è giusto difendere l’italianità di un’azienda? La risposta è sì, ma bisogna vedere come farlo. Sì, perché la localizzazione dell’azienda è importante in termini di competenze e di strutture organizzative che costituiscono il nerbo dell’economia di un Paese. Facciamo un esempio: nel comprensorio di Firenze si produce larga parte delle borse di alta gamma al femminile, le maestranze (costituite in buona parte da cinesi) sono ancora eccellenti e quindi tutti i grandi marchi producono nella valle dell’Arno. Quasi tutti questi grandi marchi non sono però basati in Italia, le loro funzioni a più alto valore aggiunto sono allocate a Londra o a Parigi: marketing, ideazione, creatività, logistica, finanza. Questo fa sì che il mondo della moda italiano abbia perso via via competenze ad alto valore aggiunto, organizzazioni complesse e in ultima analisi manager che riversano il loro reddito in altri Paesi, senza contare che i dividendi di queste aziende vanno a beneficio di investitori che solo in piccola parte sono italiani.
Per tale ragione è bene che la 'testa' di una impresa rimanga in Italia. Ma per garantire questo risultato si deve essere in gradi di esercitare il controllo sull’azienda. Questo può avvenire in due modi. Tramite un azionista forte, o tramite un management forte. Se si escludono rarissime eccezioni, non abbiamo multinazionali italiane importanti con un azionista forte privato. Lo Stato è ancora in grado di esercitare il controllo su alcune multinazionali, ma il suo raggio di azione si è ridotto per i ben noti vincoli di finanza pubblica. Oramai è chiaro che la stagione del 'nocciolo duro' di azionisti riuniti attorno a un patto di sindacato è terminata. Il motivo è semplice: i noccioli duri non funzionano in quanto non si sa davvero chi comanda e al momento del bisogno gli azionisti non tirano fuori le risorse. Rimane il modello public company, in cui un management forte è in grado di governare le aziende avendo la fiducia degli azionisti. In questo caso non conta il blasone, contano soltanto la visione sul futuro e la capacità di remunerare il capitale nel medio-lungo periodo. È qui che il sistema Italia ha fallito. Il processo di crescita di un’azienda doveva passare tramite una separazione virtuosa tra proprietà e controllo che portasse alla nascita di una classe di manager capaci di farsi rispettare dagli azionisti e di garantire loro un ritorno economico adeguato. Il sistema Italia per anni ha invece giocato in difesa con il 'salotto buono' e il credito bancario facile. Il primo è scomparso negli anni 90, il secondo con la recente crisi finanziaria.
Sono sostanzialmente queste le ragioni della maggiore vulnerabilità dell’economia italiana post crisi finanziaria, testimoniata dalla valanga di acquisizioni: imprese fortemente indebitate o dall’assetto azionario debole sono state incapaci di giocare un ruolo attivo nei processi di acquisizioni e sono diventate 'preda'. Per ovviare a questi problemi serve a poco erigere barriere: se lo facciamo le nostre aziende moriranno di asfissia. Serve piuttosto favorire il rafforzamento patrimoniale delle imprese anche tramite incentivi fiscali, favorire lo sviluppo dei mercati e degli investitori istituzionali e, soprattutto, serve un progetto a lungo termine che rafforzi la nostra classe di manager. Il Paese ha ancora un tessuto imprenditoriale vivo con imprenditori che sanno fare il loro mestiere, quello che manca è una classe dirigente capace di guidare il passaggio generazionale di un’azienda e garantirne lo sviluppo. Non è un caso che Del Vecchio porti Luxottica a Parigi e individui nell’amministratore delegato di Essilor il futuro capo azienda e che Generali e Unicredit nel momento del bisogno si siano rivolte a due amministratori delegati francesi. Questi difetti non si risolvono con gli annunci, occorre un progetto a lungo termine e una visione che fino ad ora è mancata alla nostra classe dirigente.