Le parole sulla sfida climatica ed ecologica rivolte dal segretario generale Antonio Guterres alla 76esima Assemblea generale dell’Onu sono state inequivocabili: «Il mondo non è mai stato più minacciato o più diviso, siamo sull’orlo di un abisso e ci muoviamo nella direzione sbagliata. Sono qui per dare l’allarme: il mondo deve svegliarsi». Sulla stesa linea, l’intervento del premier italiano e presidente di turno del G20, Mario Draghi, il quale ha affermato che la questione ambientale è una priorità assoluta che deve essere affrontata in maniera tempestiva e coraggiosa.
Nonostante la loro autorevolezza, nonostante la mobilitazione di una parte importante delle generazioni più giovani incoraggiate anche ieri da papa Francesco, queste dichiarazioni rischiano però di cadere nel vuoto: di fronte all’intrico di questioni, interessi, punti di vista sul cambiamento climatico, il mondo appare disarmato. E le tre leve (preziose) su cui possiamo contare presentano tutte gravi debolezze. La prima leva è l’accordo tra Stati. A ottobre si terrà a Kunming, in Cina, la Conferenza sulla biodiversità. E a novembre si terrà a Glasgow, in Scozia, una cruciale nuova Conferenza sul clima. Rispetto a Parigi 2015, la sensibilità è senz’altro cresciuta e si può dunque sperare in un atteggiamento ancora più cooperativo.
Ma anche nel caso di un successo, la strada che abbiamo davanti rimane tutta in salita: come dimostra il fatto che il mondo è ancora oggi ben lontano dall’aver raggiunti gli obiettivi fissati nella capitale francese. Il nodo è sempre lo stesso: come ripartire i costi e i tempi dell’aggiustamento tra Paesi ricchi e poveri? Al fondo, c’è lo squilibrio tra temi globali e sovranità locali: come far entrare nelle agende dei governi nazionali il bene comune planetario della salvaguardia del creato?
La seconda leva ha a che fare col mondo delle imprese. All’origine dei problemi che abbiamo davanti vi è lo sviluppo industriale degli ultimi due secoli che, se ha segnato un incredibile miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di persone, oggi ci obbliga a fare i conti con i suoi effetti collaterali di lungo periodo. Si può osservare con soddisfazione che il mondo delle imprese (compresa parte della finanza) oggi è largamente mobilitato, anche perché diventa ogni giorno più chiaro che i problemi ecologici sono destinati a causare ingenti danni economici. Ma immaginare che possa essere il semplice interesse a guidare il mondo fuori della questione ecologica è francamente un’illusione.
La terza leva riguarda gli stili di vita delle persone e il ruolo delle comunità. Anche qui ci sono alcuni segnali confortanti, come la maggiore sensibilità da parte dei consumatori nei confronti della sostenibilità. Ma siamo ben lontani da ciò che serve. Nella quotidianità, tutti noi continuiamo ad avere molti comportamenti insostenibili. Per questo è importante la ripresa della pressione 'dal basso' dei giovani e giovanissimi di Fridays for Future. In tema di sostenibilità, inoltre, la tecnologia può e deve dare un contributo importante. Ma sarebbe un grave errore pensare che la tecnica sia capace, da sola, di sbrogliare la matassa. Per diverse ragioni: c’è un problema di tempi (le nuove tecnologie non arriveranno in un battibaleno), di gestione dei costi (le nuove tecnologie richiedono investimenti molto impegnativi) di governo dell’aggiustamento (i diversi gruppi sociali sono diversamente attrezzati rispetto al cambiamento).
La questione ambientale, insomma, non è solo tecnica ma si intreccia intimamente con i temi culturali, sociali, demografici, politici. Se vogliamo prendere sul serio gli inviti all’azione di Guterres e di Draghi, se abbiamo compreso il messaggio della Laudato si’ di papa Francesco, dobbiamo ammettere che non si può sperare di raggiungere i risultati sperati senza affrontare alcuni nodi di fondo che interpellano il nostro tempo. La questione della sostenibilità comporta il superamento di uno dei presupposti che stanno alla base della modernità: l’idea, cioè, che attraverso il mercato sia possibile trasformare la spinta dell’interesse individuale in benessere collettivo. Oggi abbiamo davanti una situazione molto diversa: l’interesse individuale produce effetti collaterali devastanti. E d’altra parte il sistema dei prezzi non è sufficientemente né per indurre i cambiamenti necessari né per gestire le emergenze. Ciò significa che dobbiamo passare da una cultura centrata sull’interesse individuale a una fondata sulla responsabilità personale: ogni nostra azione ha conseguenze rilevanti sugli altri e sull’ecosistema. Un cambio di prospettiva che forse oggi, dopo, l’esperienza della pandemia, può suonare più convincente.
Una tale 'conversione' non si basa su un’astrazione moralistica, ma sul riconoscimento di un problema 'epistemologico': è cioè il modo con cui guardiamo e ci rapportiamo con la realtà a costruire il problema. Riconoscere che siamo legati gli uni agli altri comporta imparare a ragionare nella prospettiva della complessità. Cioè della integralità della realtà, o per dirla con Romano Guardini, della 'concretezza' bene intesa. Su questo vale quanto ha scritto Edgar Morin: «Quest’altro pensiero che io chiamo complesso, ci dice che nulla è acquisito una volta per tutte, che le forze di disgregazione di dispersione e di morte riappaiono sempre; ci dice che anche solo per sussistere, tutto ciò che è vivente umano culturale sociale deve autorigenerarsi, autoprodursi incessantemente.
Ci dice che tutto ciò che è complesso, e cioè migliore, è fragile». Complessità non è un modo per definire un grado superiore di complicazione del mondo e dei suoi processi. È, piuttosto, un termine che ci aiuta a capire che la realtà non è mai interamente sotto il nostro controllo. La vita – nelle sue diverse dimensioni – continua a sfuggirci. Più che dominarla dobbiamo imparare a rispettarla.