Di fronte alla tragica vicenda di Federico Carboni (detto Mario) non ci sono parole da dire o scrivere: c’è solo il silenzio, ma che sia un silenzio fecondo di idee che possano ispirare le nostre scelte anche quotidiane. Il suo 'testamento spirituale' è un inno alla vita. Nella reale impossibilità di esprimere un giudizio ultimo sul gesto compiuto tramite il suo dito mignolo, perché da credenti dobbiamo lasciare che sia il Dio della vita a giudicare della sua e della nostra morte, mi sembra di dover sottolineare due frasi, che hanno colpito il cuore e la mente di molti, al di là dei livelli giuridico e politico, che pure devono essere coinvolti nel caso.
Qui, oltre che col diritto, abbiamo a che fare con la metafisica. E in primo luogo si tratta di una 'metafisica della vita' e non della morte: «Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola». Certo questo pensiero si rivolge a se stesso, ma credo costituisca un appello per tutti noi, sia nel caso in cui. ringraziando il cielo, non viviamo la sua tragica esperienza, sia qualora ne siamo, nostro malgrado, immersi. Fantastica è l’unica vita che ci è stata donata. Il mignolo di Enrico l’ha restituita al mittente, ritenendola, per le sue modalità concrete, sofferte, tragiche, insopportabile, ma non negandone il supremo valore. Di fronte a ogni suicidio, che sia o meno assistito, mi torna sempre in mente un suggestivo brano di 'Addio alle armi' di Ernest Hemingway: «Se qualcuno porta tanto coraggio in questo mondo, il mondo può solamente ucciderlo per spezzarlo, così naturalmente lo uccide. Non c’è nessuno che il mondo non spezzi, molti poi si rafforzano nel punto in cui sono spezzati. Quelli che non si spezzano altrimenti il mondo li uccide. Uccide con la stessa imparzialità sia i molto buoni che i molti gentili e i molti coraggiosi. E se non sei fra questi ucciderà anche te, ma con minor fretta».
E mi piace pensare che Federico si sia rafforzato nel punto o nel momento in cui il mondo, servendosi del suo mignolo, lo ha spezzato. La mia speranza si fonda sul naufragio che questo nostro fratello ha espresso dicendo di sentirsi come «barca alla deriva nell’oceano», ma, aggiungendo metafora a metafora, si è alla fine detto «libero di volare». Ed è volato fra le braccia della misericordia divina, che si è fatta carico della sua fragilità, della impotenza di un uomo che dice – e bisogna credergli – di aver fatto «tutto il possibile».
A noi che restiamo e discutiamo e piangiamo la sua morte, non resta che impegnarci per sconfiggere questo mondo che spezza quanti hanno coraggio, fino a determinare il rifiuto di una vita che resta fantastica a prescindere dalle nostre scelte. Ed è proprio in questa prospettiva che dobbiamo stimolare e continuamente pungolare le istituzioni perché la «vita fantastica» non giunga a livelli di insopportabilità tali da ispirare la scelta dell’auto-soppressione. E ciò comporta il necessario ausilio di cure e di terapie del dolore che accompagnino il paziente all’attraversamento della soglia e davvero gli consenta di «volare» in un’altra vita che non si contrappone alla presente, piuttosto la invera e le conferisce senso.
La «vita fantastica» può mostrare un volto «crudele», ma di questa crudeltà nessuno può diventare complice, al di là delle proprie convinzioni religiose, ideologiche o filosofiche. Quanti sono chiamati a legiferare a riguardo del fine vita sono semplicemente richiamati alla necessità di evitare in ogni modo tale complicità con la morte e col nulla eterno, verso il quale non si vola, ma nel quale ci si può solo inabissare.