È di alcuni mesi fa la pubblicazione del secondo volume di una nuova traduzione italiana de “Il tramonto dell’Occidente”, il testo di Oswald Spengler che nel 1922, data della sua prima edizione, segnò un vero e proprio caso nella cultura tedesca del Novecento.
Quelle pagine, che descrivevano la storia della civiltà occidentale nei termini di una parabola vitale giunta all’ultima stagione della vita, colpiscono se rilette oggi, nei giorni della pandemia e di una crisi così profonda e diffusa che investe la totalità della vita di singoli, famiglie, comunità e Paesi.
Eppure, proprio la radicalità dell’esperienza che in questi giorni tutti noi forzatamente viviamo, il venir meno di certezze e abitudini, il confronto impietoso con una realtà che rende obsoleto e inadeguato ogni giudizio, schema o paradigma, aiuta a rileggere testi come quello di Spengler o “La Montagna Magica” di Thomas Mann. È l’oggi che ci permette di comprendere meglio quanto radicale, traumatico e profondo sia stato il taglio prodotto, cento anni fa, dalla catastrofe della Grande Guerra nella coscienza collettiva di popoli e nazioni. E questo esercizio da storici ci offre anche uno spunto per iniziare a capire quanto, a sua volta, sarà irreversibile il lascito dei giorni di questo nostro presente sulla nostra intelligenza delle cose.
Non siamo certo al “tramonto” dell’Occidente evocato da Spengler, eppure quel che viviamo è un passaggio nel quale la politica, l’economia, la quotidianità di studenti e famiglie, l’abituale vita religiosa, non sono solo sospese. Perché l’estensione globale della crisi, la sua pervasività, il suo non conoscere confini né geografici né sociali, fa di questa pandemia il metro di paragone su cui misurare tutto il nostro sistema di giudizi e di valori. Questa sorta di crogiuolo della storia che stanno diventando questi mesi mostra allora la nuda verità di alcune cose: ad esempio rivela che l’opposizione fra europeisti e sovranisti che negli ultimi anni ha ingabbiato il lessico politico del nostro continente non corrisponde alla realtà.
Perché, da un lato, scricchiola più che mai l’idea dell’Unione Europea come realtà politica e dall’altro si sgretola la pretesa di stabilire un “prima” sulla base della nazionalità degli esseri umani. Le parole della presidente della Bce, che giustamente tante polemiche hanno sollevato, o la voluta e, in diversi modi perdurante, sottovalutazione dei pericoli di figure come Boris Johnson e Donald Trump, sono l’espressione plastica di un mondo, mentale prima ancora che istituzionale, economico e politico, che semplicemente non esiste più e viene rapidamente travolto dagli eventi.
L’Europa di Maastricht, dei patti di stabilità, non è più, così come non è più l’Europa della sovranità degli Stati brandita come valore assoluto. Tutto questo non segna però il crearsi di un vuoto. Al contrario: il digiuno forzato di relazioni, di lavoro, di libertà di movimento, di socialità, diventa via faticosa di comprensione della dimensione comune a cui apparteniamo, esperienza di una fraternità che acquista e acquisterà lo spessore di categoria politica sulla quale dovremo edificare quell’Europa politica che oggi non c’è e fatica a nascere.
È una grande apertura di orizzonti, che pure si mostra fra le pieghe di queste settimane drammatiche e che ci rivela come la cesura che sta segnando le nostre esistenze non sia necessariamente un tramonto. Piuttosto siamo messi di fronte alla possibilità di un domani che sta a noi edificare e soprattutto pensare con categorie nuove. E se è così, il tempo che arriva è quello in cui saranno i più giovani a doverci insegnare l’alfabeto e la grammatica di una lingua nuova, di un modo di pensare nuovo, dove parole come “politica”, “famiglia”, “cultura”, “amicizia”, “lavoro”, “economia”, “salute”, “Europa” avranno un senso certamente più umano.
Storico della filosofia, Comitato Scientifico di Argomenti2000