Caro direttore,
la pandemia ha dimenticato una generazione e nessun Paese al mondo vuole prenderne atto, neanche il mondo sanitario che ha creato vaccini solo per gli adulti. Secondo il professor Ed Galea, esperto di piani di evacuazione dell’Università di Greenwich, l’espressione 'prima donne e bambini' indica con un protocollo non scritto: chi dovrebbe essere salvato per primo in caso di pericolo. Eppure questa volta qualcosa non ha funzionato. Marina Mastropierro nel suo libro 'Che fine ha fatto il futuro?' spiega in maniera efficace il problema della disuguaglianza generazionale; una nuova classe di esclusi dal benessere e dalle opportunità che si fa fatica a nominare: i giovani. Una sorta di 'criminalizzazione' del giovane come problema da risolvere. Come esito finale, ricordava l’illustre economista Anthony Atkinson, «la disuguaglianza dei risultati oggi, si trasforma in disuguaglianza di opportunità domani».
I vaccini ora vengono distribuiti in tutto il mondo, ma la maggior parte dei giovani non può averne uno. I ragazzi sotto i 16 anni non sono idonei per il vaccino, neppure se pazienti oncologici. A febbraio è partita nel Regno Unito una sperimentazione su 300 volontari, di età compresa tra 6 e 17 anni: una piccola sperimentazione sul vaccino AstraZeneca attraverso l’Università di Oxford. Moderna e Pfizer stanno per iniziare. Pfizer ne ha reclutati più di 2.000 di età compresa tra 12 e 15 anni. Tuttavia, Moderna riferisce di aver avuto problemi con i genitori dei 3mila volontari dai 12 ai 17 anni necessari per la sua sperimentazione. Qualunque pandemia, anche dal punto di vista medico e scientifico, è un problema che riguarda il cittadino in quanto parte della società, e non la persona come individuo singolo. Sembra una sottile questione semantica, ma non lo è. La storia ha insegnato che le malattie contagiose hanno assunto un ruolo significativo solo con la rivoluzione del neolitico, allorquando gli uomini passando da nomadi a sedentari, sostituendo la caccia con l’agricoltura e iniziando ad allevare, si organizzarono in società e creando nuclei di persone, svilupparono le prime forme di modello politico ed economico.
E come ricorda Guiomar Huguet Pané: la malattia è parte integrante della storia dell’umanità. Cosa rende questa pandemia tanto diversa? Senza che ce ne rendiamo conto, abbiamo raggiunto un livello di benessere che non ha paragoni con nessun’altra epoca storica o civiltà; viviamo nell’illusione che la salute sia un diritto sancito dalla Costituzione senza alcun impegno da parte del cittadino: il binomio vita-salute non coincide con l’assenza di malattie e con l’obbligo della guarigione, ma questo è il modello che mezzi di informazione, televisione e social, trasmettono. Siamo sinceri: bambini e giovani non si citano ormai da tempo, in nessun Dpcm.
Si discute da tempo delle istituzioni e quindi di scuola, ma solo ora ci si comincia a ricordare dei ragazzi che sinora sono semplicemente rimasti emarginati, con l’unica compagnia (virtuale) di una chat o di un videogame. Già a inizio pandemia uno studio dell’associazione 'Donne e qualità della vita' rivelava che su un campione di oltre 600 ragazzi dai 12 ai 19, un terzo era colpito da sintomi depressivi e la cosa che mancava loro di più era proprio la scuola. Sappiamo perfettamente che il crollo della nostra società non potrà mai arrivare da una pandemia, quanto piuttosto per l’incapacità nell’immaginare e favorire nuovi percorsi di crescita e sviluppo culturali dei ragazzi. Probabilmente immunizzare i giovani non inciderà sull’immunità di gregge – o come si preferisce scrivere su queste pagine sull’immunità di comunità – e una volta vaccinati gli insegnanti si potrebbe riportare i ragazzi a scuola, ma vaccinarli aiuterebbe ad arrestare la diffusione del contagio visto che il numero degli asintomatici è inversamente proporzionale all’età. È passato un anno dall’inizio della pandemia ed è ora di cambiare: prima i giovani.
Direttore Uoc di Chirurgia Ospedale Valduce di Como e presidente Erone onlus