Donald Trump alla fine si è rassegnato ad avviare la transizione di governo, autorizzando le amministrazioni federali a collaborare col presidente eletto Joe Biden, ma non ferma ancora i ricorsi. E assicura che alla Casa Bianca, alla fine, resterà ancora lui. Secondo una indagine Economist/YouGov, a questo persistente rifiuto di Trump di riconoscere la vittoria di Biden fa eco il 79% degli elettori repubblicani che dichiarano poca o nessuna fiducia sulla correttezza delle elezioni. È solo l’ultimo dato di una polarizzazione crescente negli Stati Uniti d’America, alimentata, o almeno rafforzata, dalle campagne di disinformazione. E che rischia di produrre sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Gli ultimi rapporti del Pew Research Center confermano che gli Usa hanno registrato, negli ultimi anni, un livello record di polarizzazione o, se si vuole, il livello estremo della contrapposizione tra repubblicani e democratici. È vero che la polarizzazione, con stagioni alterne, c’è sempre stata in uno schema bipartitico come quello americano. Ed è altrettanto vero che fenomeni di crescente polarizzazione sono comuni a molti Paesi, anche europei. Ma diversi studi empirici comparati mostrano il caso eccezionale degli Usa.
Nemmeno l’emergenza di un 'nemico comune' come il Covid-19 ha creato un fronte unico di compassione e solidarietà. Anzi. Se per l’82% degli elettori democratici intervistati da Pew la crisi del coronavirus è stata un elemento centrale del confronto elettorale presidenziale, per quelli repubblicani questa cifra si attesta al 24%. Una polarizzazione misurata non solo nella diversa percezione del pericolo sanitario, ma anche nei comportamenti adottati in relazione all’uso delle mascherine e al distanziamento fisico. In entrambi gli schieramenti, circa il 90% degli elettori hanno dichiarato di ritenere un danno duraturo ( lasting harm) la vittoria elettorale del leader politico dello schieramento avverso.
Una frattura, come hanno rilevato molti osservatori, che non riguarda più soltanto le ricette politiche in molti campi, dall’economia alla crisi climatica, dalle politiche di integrazione multietnica a quelle di lotta al crimine, dal multilateralismo alla definizione di una politica di 'sovranismi internazionali'. C’è come uno spartiacque di identità e una opposta identificazione rispetto a quali princìpi debbano guidare la cittadinanza e alle verità pubbliche in cui essa si manifesta. Un fenomeno alimentato dalla disinformazione sui media tradizionali e sul web, attraverso meccanismi che riducono il confronto tra opinioni diverse.
Alcuni esperimenti condotti da Steven Sloman e Philip Fernbach – uno scienziato cognitivo e uno studioso delle decisioni – dimostrano che il dialogo riduce sia la presunzione di sapere ciò che in realtà non si conosce, sia la polarizzazione delle idee. Più si dialoga più quella presunzione cede il passo all’apertura e all’umiltà. Esattamente il contrario delle dinamiche osservate da molti studiosi degli attuali fenomeni politici. Ed è paradossale osservare, che proprio dagli Usa, spesso presi a esempio come patria dei valori liberali, si assista al fallimento della particolare funzione sociale che, giusto un secolo fa, il giudice Oliver W. Holmes della Corte Suprema assegnava alla libertà d’espressione: il libero confronto tra idee, per Holmes, andava difeso come strumento per il conseguimento della verità. Una verità pubblica, 'rivelata' dalle libertà di opinione che sanno confrontarsi e, per questo, alla fine, condivisa, come già sostenne John Stuart Mill. Ma che ne è della libertà d’espressione in un dialogo tra sordi? Che ne è del pluralismo in una società sempre più polarizzata anche grazie alla disinformazione?
Una risposta utile, per sciogliere questo nuovo dilemma del pluralismo all’epoca della polarizzazione, ci viene da alcune pagine della enciclica di papa Francesco Fratelli tutti racchiuse in un capitoletto dal titolo illuminante: 'Il consenso e la verità'. Scrive il Papa che in una società pluralista il dialogo è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che deve essere sempre rispettato e che va oltre il consenso occasionale. Un dialogo che «esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti razionali, da varietà di prospettive, da apporti di diversi saperi e punti di vista, e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute».
Difendere in sé la libertà d’espressione, sganciandola dal dialogo, equivale ad avere, «solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi». C’è qui un messaggio dirimente, che unisce Mill a papa Francesco, e che riguarda tanto il pluralismo dell’informazione, nei vecchi e nei nuovi media, quanto le modalità stesse del confronto e della competizione politica: il futuro delle democrazie, sempre più polarizzate, sembra legarsi, oggi più che mai, alla capacità di difendere tanto la libertà d’espressione quanto il dialogo.
L’interrogativo è se la politica, unitamente a quella parte di giornalismo che è diventato riflesso della contrapposizione partigiana, saranno capaci di liberarsi dalla trappola della polarizzazione, coniugando, appunto, 'consenso e verità' in una stagione nella quale il binomio sembra invece essere quello del consenso e della disinformazione. E persino, come dimostra il tenace mancato riconoscimento della vittoria di Biden, della disinformazione sul consenso.