Tra gli strascichi del giudizio sfociato nella parziale bocciatura dell’“Italicum” ce n’è uno, indiretto ma riguardante un aspetto non secondario del funzionamento della nostra giustizia costituzionale. Stavolta ne è nata persino una vibrata polemica tra Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte, e Liana Milella, punta di diamante del giornalismo specializzato. Eppure, nell’imminenza della pubblicazione della sentenza, torna a girare la giostra delle indiscrezioni; e c’è già chi tira a indovinare se e quanto il giudice redattore cercherà di dare contentini argomentativi anche a chi è rimasto in minoranza.
Ormai è più che un’abitudine: non c’è decisione dei giudici supremi su un tema “caldo”, che non scateni una sorta di “toto-voto”, prima e dopo la deliberazione: con vere e proprie gare tra i cronisti di casa a Palazzo della Consulta, per conquistarsi la palma del più capace nel carpire voci e sussurri e nell’azzeccare pronostici prima ancora che nel registrare gli esiti numerici dei confronti all’interno del collegio.
Sta qui, mi sembra, un argomento robusto – e, oggi, forse decisivo – perché, finalmente, si giunga ad introdurre per i membri della nostra Alta Corte la possibilità di esprimere palesemente e motivatamente delle opinioni “separate” da giustapporre alla vera e propria deliberazione collegiale (fermo restando, ovviamente, che sia quest’ultima l’unica ad avere effetti giuridici, sia essa presa all’unanimità o a maggioranza, rimanendo però, le opinioni minoritarie, non solo a testimonianza di una dialettica da rispettare per se stessa, ma anche come potenziali punti di riferimento per eventuali overrulings). La più consistente tra le obiezioni che si muovono contro un’innovazione del genere poggia invero sul rischio che l’esplicitazione delle “ dissenting opinions” accentui le tendenze alla formazione di veri e propri schieramenti, più o meno politicizzati, all’interno dell’alto consesso.
Ma non è peggio, quando – come accade ora – gli schieramenti, reali o presunti, si costruiscono e ricostruiscono dall’esterno, sulla base di confidenze, indebite ma non infrequenti, e di congetture più o meno credibili per appiattirsi poi in conteggi sommari effettuati, ex ante ed ex post, sul pallottoliere? Nel mondo ci sono parecchie altre Corti, nazionali e internazionali, investite di compiti di vertice, analoghi a quelli dell’organo che da noi ha il ruolo di garante giurisdizionale dei diritti fondamentali e degli equilibri istituzionali.
E pressoché dovunque funziona il meccanismo della esternabilità, da parte dei giudici stessi, non solo di opinioni “dissenzienti” ma anche di quelle “concordanti”, cioè differenziate dall’opinione maggioritaria, non nelle conclusioni, ma nelle motivazioni (che non di rado sono poi la parte più importante delle decisioni). In Italia ha sin qui prevalso la convinzione che la comune “cultura della Costituzione”, di cui la Corte è chiamata ad essere la più alta espressione, e il principio di collegialità che ne regge il funzionamento, possano essere meglio garantiti dal non serbare memoria delle divergenze che si manifestino nella fase genetica delle pronunce (la sola “spia” ufficiale di tali divergenze traspare oggi dall’indicazione che risulti dal testo stesso della sentenza, di un “redattore” diverso dalla persona cui era stato affidato il compito di “relatore” della causa all’udienza, arguendosi facilmente, in tal caso, che quest’ultimo è rimasto in minoranza).
Ma un sistema che consentisse l’esprimersi delle diverse modulazioni registratesi nella genesi delle sentenze della Corte non sarebbe in contrasto con il carattere collegiale del suo lavoro né con il suo necessario radicarsi su un terreno di condivisione, se non delle interpretazioni di singole norme, del complessivo spirito fondatore della Carta fondamentale. Ne sarebbe anzi il più coerente complemento, evitando di occultare la realtà di naturali differenziazioni e di legittime tensioni (che, poi, quasi mai riflettono contrapposizioni ricopiate su quelle del mondo politico).