Questa volta la Francia, Paese tradizionalmente legato ai paradigmi di una laicità-laicista (la famosa laïcité de combat, laicità di lotta), dà all’Italia una lezione di laicità positiva. Vale a dire una laicità che riafferma con vigore la spettanza a Cesare di quel che è di Cesare, ma che al contempo non solo riconosce la incompetenza dello Stato in ciò che appartiene a Dio, ma ammette che le istituzioni pubbliche, nel rispetto della reciproca autonomia, debbano creare le condizioni – innanzitutto giuridiche – perché le istituzioni religiose facciano la parte che a esse compete.
Questa lezione ci viene dalla ordinanza del Consiglio di Stato francese, del 18 maggio scorso e sulla quale 'Avvenire' ha ampiamente riferito, con cui si dichiara la illegittimità del provvedimento governativo che, regolando il passaggio alla cosiddetta Fase 2 nella dolorosa vicenda della pandemia, ha mantenuto il divieto totale dei riti aperti ai fedeli negli edifici di qualsiasi culto, già previsto nella disciplina previgente, cioè quella dettata per le prime settimane di confinamento più rigoroso. I giudici francesi hanno contestualmente dato tempo al Governo di provvedere in merito, comunque entro il 26 maggio prossimo.
La decisione, per certi aspetti clamorosa, tocca una vicenda che ha attraversato tutti i Paesi investiti dal coronavirus, tra esigenze di tutela della salute pubblica e rispetto dei diritti fondamentali, tra cui la libertà religiosa. Pure da noi le polemiche si sono fatte sentire, anche perché la disciplina italiana in materia è stata oggettivamente più rigorosa, e certe interpretazioni della stessa da parte di alcune pubblici poteri l’ha irragionevolmente resa ancora più stringente mentre altri hanno tentato di dire alle autorità religiose che cosa dovessero o non dovessero indicare ai fedeli. Non a caso a un certo momento la Conferenza episcopale italiana ha ritenuto, e giustamente, di dover sollevare la questione, ritrovando poi interlocutori governativi dialoganti.
Ma torniamo alla Francia. La decisione del Consiglio di Stato, rilevante per più parti, merita attenzione in particolare sopra tre punti.
Il primo è quello che attiene direttamente all’oggetto del contendere: la libertà di culto. In relazione a questa, i giudici d’Oltralpe precisano con puntigliosità che si tratta di una libertà fondamentale; che essa non si limita al diritto di ciascuno di esprimere le proprie convinzioni religiose ma comporta ugualmente – nel rispetto dell’ordine pubblico – il diritto di partecipare collettivamente alle cerimonie religiose, in particolare nei luoghi di culto. L’affermazione è importante perché riporta nella giusta scala dei valori la tematica religiosa, che in una società secolarizzata tende a essere messa al margine, se non a essere dimenticata. In concreto quindi il problema è, afferma il provvedimento francese, quello di una conciliazione di tale libertà con gli altri diritti costituzionali, tra cui la protezione della salute. E qui si potrebbe osservare che se agli occhi del non credente il diritto alla salute può forse prevalere su quello alla religione, tutto all’opposto accade per il credente, per il quale la salute eterna vale ben più di quella terrena.
Il secondo punto rilevante della decisione è nella interpretazione aperta, positiva, direi liberale, che viene espressa del secondo comma dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ovvero dei limiti all’esercizio della libertà religiosa. La disposizione prevede che «può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui». Anche qui i giudici francesi ci insegnano qualcosa, posto che nelle polemiche intercorse da noi, nelle settimane passate, da qualche parte si era invocato l’articolo in questione per legittimare, all’opposto, il massimo di restringimento possibile della libertà di culto.
Il terzo punto riguarda il richiamo forte al principio di 'stretta proporzionalità' tra misure restrittive adottate e beni costituzionalmente protetti, in particolare il diritto alla salute e la libertà di culto. Secondo i giudici, infatti, il divieto generale e assoluto previsto dalla disciplina francese in materia di culto pubblico, presenta un carattere sproporzionato rispetto al pur rilevante obiettivo della salvaguardia della salute pubblica, risolvendosi così in un attentato grave e chiaramente illegale della libertà di culto. Occorre dunque un migliore bilanciamento tra le due esigenze di tutela. Ma la decisione mette in dubbio la legittimità anche della più recente regolamentazione francese in materia, dell’11 maggio scorso, perché intravvede in essa una palese violazione del principio di eguaglianza. Difatti il decreto del primo ministro prevede che, per tutto il periodo di restrizioni nelle relazioni sociali imposte dalla lotta al Covid-19, restino vietate le riunioni negli edifici di culto, mentre in altri casi si dispongono limiti diversi, più larghi. È il caso dei funerali, per i quali la partecipazione è consentita fino a venti persone.
Altre osservazioni potrebbero essere fatte, ma esse riguardano le peculiarità dell’ordinamento francese, come quella per cui, in base alla Legge di separazione del 1905, buona parte degli edifici di culto sono di proprietà dello Stato; o l’altra per cui nell’ordinanza è richiamata la particolare situazione giuridica nei Dipartimenti del Reno, dove vige ancora il Concordato napoleonico del 1801. Ma l’inammissibilità di una irragionevole e sproporzionata restrizione della libertà di culto, l’inaccettabilità di una graduatoria tra diritti fondamentali, l’intollerabilità di una disparità di trattamento: ecco, questi punti fermi dei giudici francesi sono utili anche per noi.