Sotto lo spettro del ricorso alle armi nucleari, necessario un cambio di passo «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei». Sono questi i celebri versi con cui comincia l’Iliade, primo grande classico della letteratura occidentale. È a partire dalla umanissima reazione di Achille all’affronto subito da Agamennone che Omero sceglie di raccontare le drammatiche vicissitudini di un conflitto pluriennale tra greci e troiani, dove diventa difficilissimo distinguere chiaramente le ragioni dai torti. Sono passati millenni e sembra di essere ancora allo stesso punto: la guerra è un contesto in cui, al di dei piani e delle strategie, a contare sono gli strati emotivi più profondi che agitano capi e popolo. Gli esiti finali della guerra in Ucraina rimangono a oggi indeterminati. Da una parte l’avanzata delle forze ucraine sta mettendo in grave difficoltà l’esercito russo. Qualche analista sostiene addirittura la possibilità di un tracollo imminente. Dall’altra parte, Putin – prigioniero dei propri errori – prosegue sulla propria linea, incurante dei rovesci che sta subendo sul fronte: firma i decreti per l’annessione dei territori occupati, dichiara di proprietà russa la centrale nucleare di Zaporizhzhia, continua con la mobilitazione di centinaia di migliaia di riservisti. Intanto altre centinaia di migliaia di russi lasciano il Paese. Su tutto, aleggia lo spettro del ricorso alle armi nucleari. Su questo punto è impossibile fare previsioni: se messo con le spalle al muro, Putin sarà capace di usare la bomba atomica? Nessuno lo sa con certezza. Ma tutti possono capire che cosa seguirebbe a una tale terribile decisione.
La strategia occidentale nella crisi dell’Ucraina ha indubbiamente ottenuto risultati importanti sul piano bellico. L’appoggio all’esercito ucraino ha permesso prima di resistere e poi di reagire all’invasione russa, come dimostra l’avanzata di queste ultime settimane. L’esercito russo è in difficoltà e gli ucraini stanno riconquistando terreno. Le sanzioni funzionano meno, anche perché gli occidentali continuano a fare affari energetici con la Russia, ma la popolazione comincia ad accorgersene. Ci sono aspetti che non sono affatto convincenti. In primo luogo l’unità dell’Occidente mostra diverse smagliature. In Europa vediamo come è difficile rimanere uniti: sono mesi che si sta cercando di arrivata a una strategia comune per far fronte alla crisi energetica. E ancora non si è arrivati al risultato. Mentre negli Usa sono ancora vivi i timori per le elezioni di Midterm, che potrebbero cambiare gli equilibri tra democratici e repubblicani. Insomma, l’Occidente appare per quello che è sempre stato: convergente sì, ma non compatto, anche di fronte a una emergenza così grave. E l’Europa non è protagonista sebbene sia coinvolta in una escalation insidiosissima. In secondo luogo, rimane molto flebile la capacità di sviluppare un dialogo con i grandi Paesi non direttamente coinvolti nel conflitto. A cominciare da Cina e India. E questo è grave, tenuto conto che Putin ha fin dall’inizio cercato di spostare la questione dal piano locale (l’Ucraina) a quello globale (lotta contro l’Occidente). In questa situazione, non sviluppare una vigorosa azione diplomatica verso i Paesi terzi è un grave errore strategico. Infine, a tutt’oggi resta dietro le quinte il tentativo, che pure c’è, di impostare un piano di pace che, partendo dal cessate il fuoco, possa aprire un sentiero verso una soluzione del conflitto. La disponibilità di Putin a incontrare il presidente americano Biden al prossino G20 è un segnale, come il “non rifiuto” totale di quest’ultimo (con la condizione non piccola e non gigantesca di risolvere il caso di una cestista Usa detenuta in Russia). Colpisce, a questo riguardo, come sia stata subito liquidata come filo-russa l’ipotesi di Elon Musk, che riprendeva anche alcuni dei sette punti proposti da Stefano Zamagni su questo giornale e che poteva essere migliorata. Bisogna pur darsi una base per uscire dal tunnel incandescente dell’escalation bellica.
E qui si torna a Putin, che ha armi a bizzeffe ma si trova all’angolo. L’ipotesi di un ritiro che segni la sconfitta sul campo è altamente improbabile. Peraltro, se ciò accadesse, difficile immaginare che Putin possa rimanere al potere. Ma a quel punto cosa accadrebbe? Anche qui si è osservato che ciò potrebbe portare o allo smembramento della stessa Russia – con grande vantaggio della Cina – oppure a un governo ancora più nazionalista. Con rischi che aumenterebbero esponenzialmente. L’alternativa è che Putin continui sulla strada che ha seguito in questi mesi, arrivando perciò a usare armi tattiche nucleari con lo scopo di determinare il coinvolgimento di altri Paesi. È così cambiare il corso della guerra. A quel punto non parleremmo più di Ucraina ma di qualche cosa d’altro, che non riusciamo nemmeno a pensare. Per questo l’Europa deve impegnarsi, rispondendo a un’urgenza sottolineata dagli appelli che si vanno moltiplicando a partire da quello che, da Roma nella primavera scorsa, un gruppo di associazioni laiche (Anpi, Arci, Movimento Europeo, Rete italiana Pace e Disarmo) e il direttore di questo giornale hanno consegnato ai parlamentari della Ue, al Governo italiano e alla Chiesa cattolica. Ancora Omero ce lo insegna: è sempre sbagliato farsi portare dai sentimenti che soggiacciono a ogni guerra. Saggio è provare a guardare con lucidità all’intera situazione, aldilà del campo di battaglia.