Il Next generation Eu – il piano varato dalla Commissione Europea nei mesi della pandemia e da cui è nato il Pnrr messo a punto dal governo Draghi – disegna il futuro attorno a due pilastri: un nuovo ambiente tecnologico (digitalizzazione) e l’urgenza della transizione energetica e produttiva (sostenibilità). Immettendo risorse finanziarie importanti per sostenere i necessari investimenti, il piano si propone di accelerare il cambiamento del nostro modello di sviluppo.
I dati Istat sulla povertà italiana pubblicati qualche giorno fa ci restituiscono, invece, la fotografia di un Paese in grande difficoltà, con 5,6 milioni di persone (circa uno su dieci) in condizione di povertà assoluta (con difficoltà, cioè, ad arrivare alla fine del mese). E tutto ciò nonostante gli sforzi compiuti dai governi Conte e Draghi con la raffica dei decreti ristoro che hanno portato il debito pubblico al 160% del Pil e il pieno dispiegamento di una varietà di strumenti di protezione (reddito di cittadinanza, pensione di cittadinanza, reddito di emergenza, a cui si devono aggiungere i tanti cassaintegrati su cui pende l’incertezza del futuro). Queste misure hanno impedito alla piaga di essere ancora più estesa, ma non l’hanno curata.
Il problema che abbiamo davanti è mettere insieme queste due facce della realtà: un futuro sempre più avanzato e un presente nel quale troppi rimangono ai margini. Questione peraltro riconosciuta dallo stesso piano europeo che indica l’inclusione sociale come il 'terzo pilastro' da costruire. Gli ottimisti sostengono che proprio il rilancio dell’economia asciugherà velocemente le sacche di sofferenza sociale. Che la spinta alla ripresa economica sia essenziale per combattere i gravissimi problemi di povertà che i dati ci segnalano è fuori discussione. Ma occorre essere ben consapevoli che la crescita è condizione necessaria, ma certo non sufficiente. Le domande sono: quanti di questi milioni di italiani in difficoltà sono in condizione di entrare a far parte del nuovo ciclo di crescita? E come verranno ripartiti i profitti dei prossimi anni? Il problema è che, in una società avanzata, la povertà – che si espande in fretta quando c’è la crisi e si riduce più lentamente e in modo non omogeneo quando c’è la ripresa – non è una dimensione 'elastica', come direbbero gli economisti.
Il Covid ha mandato in panne gli equilibri di quella ampia fascia di popolazione precaria che riusciva in qualche modo a sbarcare il lunario. Molte di queste persone avranno ancora le capacità e la voglia per rimettersi in gioco.
Altre avranno più difficoltà. È chiaro allora che le misure di protezione sono necessarie per evitare che la sofferenza sociale esploda in rabbia. Ma è altrettanto chiaro che la povertà non è riducibile alla sola dimensione economica. Si potrebbe dire così: in una società avanzata le condizioni di povertà sono la calcificazione di una serie di fragilità: un livello di studio e una esperienza lavorativa inadeguate; una situazione familiare precaria (ad esempio famiglie con figli e con un solo genitore), la presenza di una patologia cronica invalidante o di una disabilità grave, la provenienza da un contesto urbano degradato o da una area interna, una condizione di marginalità professionale; giovani imprigionati nella ragnatela dei lavoretti e della gig economy e/o di dipendenza (alcol, droga, azzardo). Per combattere questi problemi la crescita non basta.
Né bastano i trasferimenti monetari (che pure vanno garantiti). Semplicemente perché la povertà ha a che fare con situazioni in cui a infragilirsi è la persona in quanto tale con la sua rete di relazioni primarie e secondarie. Ecco dunque che l’obiettivo dell’inclusione sociale di cui parla il piano europeo ha bisogno di essere assunto come criterio e parametro della stessa crescita. Tutti noi speriamo che il post pandemia coincida con l’apertura di un nuovo ciclo di sviluppo. Ma ciò avverrà solo se i benefici non andranno a vantaggio di una parte ristretta della società. Per ottenere questo risultato, occorre prima di tutto dedicarsi fin da subito alla cura delle persone in difficoltà e alla ricostruzione delle loro reti di relazione. Così che nessuno sia lasciato solo. Nelle ultime settimane c’è stata una specie di euforia legata allo slogan della ripartenza.
Chi può, si è rimesso a correre. Ma è difficile ripartire se hai le quattro gomme bucate. Chi sta bene, chi ha capacità, chi ha risparmi – e sono tanti – è chiamato a mettersi in gioco. Combattere la povertà non è compito solo dello Stato. Ma dell’imprenditore, dell’insegnante, del professionista... L’importante è ricominciare a guardare avanti cambiando il nostro modo di ragionare: la crescita economica è un bene, ma non può essere pensata a prescindere dalle persone che abitano una comunità e dal rapporto con la natura. E questo non è uno slogan, né un auspicio buonista. È la presa d’atto della correzione dello sguardo che la pandemia ci chiede. La povertà è un problema e una sfida: è possibile una crescita che sia davvero inclusiva? È questo il problema che dobbiamo, ancora una volta, risolvere. Se lo faremo – e possiamo riuscirci – alla fine ci guadagneremo tutti. E soprattutto saremo più orgogliosi di noi.