Diciamo di essere in guerra anche se la maggior parte di noi la guerra non l’ha vissuta mai. E il fronte è negli ospedali, la trincea sta nella terapia intensiva, dove tante delle problematiche familiari ai professionisti della salute vengono acuite e ingigantite dall’urgenza del momento e dalla novità del virus che si sta combattendo.
La Lombardia, tra le eccellenze del nostro sistema sanitario, sta affrontando uno stress ai limiti delle sue possibilità, sia umane sia strumentali, e la tenuta dell’intero Paese dipende non tanto dalla gravità della malattia in sé, ma da come la nostra Sanità riuscirà a superare questo momento: non basteranno mai le parole per esprimere tutta la nostra riconoscenza e ammirazione per la tenacia generosa, e per molti versi eroica, con cui medici e operatori sanitari si stanno spendendo.
Ma se è vero che stiamo affrontando un’emergenza che resterà nei libri di storia, e che dovremo ben studiare una volta che ne saremo venuti fuori, è anche vero che i comportamenti e le decisioni di questi giorni lasceranno inevitabilmente il segno per quelli dei tempi futuri. Per questo siamo tutti chiamati a confrontarci con i dilemmi che stanno emergendo oggi, a partire dall’allarme lanciato dai nostri combattenti in prima linea: l’affollamento delle terapie intensive, con il rischio della conseguente insufficienza delle risorse disponibili, non certo tarate su una pandemia.
Alcuni dei professionisti più esposti hanno messo nero su bianco linee guida di carattere etico, che hanno toccato questioni tipiche di situazioni eccezionali, quelle note come la 'medicina delle catastrofi': come utilizzare le risorse disponibili, quando non bastano più per tutti i malati? È importante dare una risposta: se si arrivasse a questo punto non potremmo scaricare sugli operatori sanitari oltre che il peso fisico ed emotivo anche l’intera responsabilità di decisioni drammatiche, che comunque potrebbe spettare a loro mettere in atto.
La prima risposta la stanno dando loro stessi, in questi giorni: basta guardarli e ascoltarli per capire che ce la stanno mettendo tutta per salvare la vita a tutti, per non arrivare mai a dover scegliere. Spesso senza neppure troppi riguardi per la propria, di vita. Intanto stanno crescendo i posti letto, aumentano le terapie intensive, si stanno comprando migliaia di ventilatori perché vogliamo e dobbiamo curare tutti, come ha ricordato anche la Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici, in un suo intervento. Ma anche se questo ci rassicura, non possiamo sottovalutare l’allarme lanciato: fare tutto ciò che è umanamente possibile per evitare una catastrofe non significa, purtroppo, riuscire a evitarla.
E siamo anche consapevoli che criteri a cui stiamo pensando adesso, per una situazione eccezionale, poi potrebbero restare, diventare praticabili anche in tempi normali, specie se sono facili da applicare, tanto più in un mondo che sta cambiando velocemente. Insieme alla grande tenuta anche umana del nostro sistema sanitario abbiamo visto troppo spesso venire meno il senso di responsabilità da parte di tanti, in questi giorni, e la preoccupazione verso i più fragili, cioè gli anziani e le persone già malate e disabili, è passata troppo spesso in secondo piano, privilegiando il desiderio di mantenere il proprio stile di vita. D’altra parte anche il diffondersi di leggi e modi pensare che mettono sullo stesso piano la scelta di vivere e quella di morire, contribuisce a indebolire quella solidarietà profonda verso chi è più vulnerabile.
Per questo è bene chiarire che il criterio della appropriatezza delle cure, quindi anche la scelta dei pazienti più bisognosi di cure, che conosciamo già come 'triage' in ogni Pronto Soccorso in tempo normale, continua a valere nelle condizioni di emergenza, nelle quali però va dilatato, adattato all’urgenza e alle difficoltà del momento. Vanno stabilite delle priorità, e la prima, evidente priorità è curare chi c’è, chi al momento ha bisogno di trattamenti.
Quale medico, infatti, ha mai negato un trattamento necessario a un paziente che ha davanti, per riservarlo per uno sconosciuto successivo, ipotizzando che sia più adeguato? E se di malati ne arrivano tanti contemporaneamente, l’appropriatezza clinica significa individuare la ragionevole speranza di guarigione per ciascuno, considerandone l’intero quadro clinico con tutti i fattori che lo costituiscono, fra cui c’è anche l’età del paziente, ma non come criterio principale e non certo intesa in senso statistico, cioè come numerosità di anni di vita trascorsa (o attesa), per individuare una soglia di accesso alle cure, quanto piuttosto come uno degli elementi di valutazione della ragionevole possibilità di guarigione. Individuare criteri di esclusione di persone dai trattamenti sanitari solo in base a considerazioni probabilistiche, per esempio solo in base all’età, significherebbe escludere ogni forma di solidarietà verso i più vulnerabili, aprendo la porta a disastri ancora più pesanti di quello da cui speriamo di uscire al più presto.