Ora non si dica: «Se l’è cercata». Non si faccia il gioco di chi l’ha fatta bersaglio di ignobili volgarità. Tiziana, è vero, ha acconsentito a farsi riprendere dalla videocamera del cellulare mentre era in intimità con un ragazzo. Un errore enorme. Se ne fanno, nella vita; la maggior parte delle volte si paga un prezzo e si ricomincia. Ma a uccidere Tiziana non è stata la superficialità del «sì» concesso a un coetaneo che anziché abbracciare lei azionava il telefonino. Ad attirare la giovane napoletana nel buio della cantina di casa, a legarle il foulard al collo sono state centinaia, migliaia di brutalità: quelle di tutti coloro che hanno commentato, condiviso e moltiplicato il video in Rete. Rilanciato il suo nome e cognome, indossato le magliette con la sua frase diventata tormentone («Stai facendo un video? Bravo!»), scambiato i fumetti, letto le vignette e riso di tutta la spazzatura che in Rete faceva riferimento a lei. «Fai schifo», le scrivevano su Facebook. E trovavano divertente gli sketch dell’emittente televisiva privata che girava per i quartieri di Napoli chiedendo ai passanti se conoscevano Tiziana. Ogni commento, una ferita che le impediva di riprendere in mano la sua vita. Ogni commento, un corresponsabile della sua morte. Dietro il display di un pc o di un telefonino, senza contatto e senza relazione, ci si sente tutti più liberi. Di scrivere la prima cosa che salta in mente, come in un enorme Bar Sport, di spararla grossa o di trovare l’insulto più colorito. Ma se le parole al Bar Sport volano, in Rete restano e cancellarle è un’impresa pressoché impossibile. Lo sanno anche i bambini ormai, tanto se ne parla in famiglia e a scuola fin dalle elementari. Nessuna attenuante, dunque, per chi ha aggiunto la sua firma sulla morte di Tiziana, tanto più che in questa storiaccia non sono coinvolti ragazzini, ma adulti. Nessuna scusante nemmeno per le «amiche» che hanno filmato la 17enne ubriaca che veniva violentata nel bagno di una discoteca e intanto ridevano, e poi hanno diffuso il video su WhatsApp. Con un telefonino in mano, ognuna di loro ha messo una distanza tra sé e la compagna, tra sé e l’amicizia, tra sé e la propria stessa umanità. Non è più ora di attenuanti, per nessuno. Nelle due tragiche vicende di questi giorni l’eterna discussione su come i social hanno deformato il nostro rapporto con la realtà e l’altra, collegata, sulla necessità di una capillare «educazione al web», non possono fare ombra al tema della responsabilità individuale. Anche penale, perché la Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio. Ma responsabilità prima di tutto morale: gli schizzi di fango sul web hanno sempre un nome e cognome, spesso anche un volto. Tiziana l’hanno uccisa in tanti, e in tanti si dovranno sentire colpevoli, oggi. Sperando che il suo gesto estremo – impotenza e ribellione insieme – insegni a tutti a riflettere prima di digitare in un post un’offesa, un insulto, una battuta volgare. A «vedere» una persona in carne e ossa nei frame mossi di un video. A fermarsi una frazione di secondo e chiedersi: «A chi sto facendo male, ora?».