Di cosa abbiamo paura? È la domanda che nasce dall’osservazione della radiografia degli italiani consegnata ieri dal Censis con il suo Rapporto annuale, sempre prodigo di immagini e suggestioni. L’affresco impressionistico dell’istituto di ricerca mostra che siamo come «intrappolati» attorno a una «linea di galleggiamento» definita di «continuità nella medietà», un popolo intimorito da suoi ricorrenti fantasmi che hanno assai meno riscontro nella realtà di quanto creda. L’elenco degli spettri generati dal gravare di una preoccupazione paralizzante fa impressione, come fosse un ritratto caricaturale che ci appare nello specchio.
Alzi la mano però chi non si sente coinvolto anche solo un poco dalle inquietudini sociali colte dal dossier incrociando migliaia di risposte sulla percezione della realtà: «Disincanto, frustrazione, senso di impotenza, risentimento, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole così caratteristica dei nostri tempi». Davvero siamo noi? Il sole sembra tramontato sulla nostra fiducia, lasciandoci avvolti nella penombra delle incertezze. Di cosa ci siamo disamorati al punto da diventare tanto tiepidi?
Accanto ai sintomi scolpiti quasi con crudezza dai sociologi, altri ne sorgono a comporre un malessere nazionale che il Censis definisce come «sindrome italiana». E sono compagni di strada che ormai conosciamo bene. A cominciare dai timori generati dai flussi migratori, oggetto di una preoccupazione diffusa basata su una percezione che non aderisce ai fatti, come se dovessimo difenderci da un’invasione che non siamo in grado di governare, mentre si scopre – numeri alla mano – che l’Italia è il Paese Ue che nell’ultimo decennio più di tutti ha concesso cittadinanze, pur tra tutte le lungaggini e i freni che conosciamo. In altri termini, siamo molto più accoglienti e integrati di quel che pensiamo. Eppure, ricorre l’idea che siamo alle prese con una “minaccia”: ai valori che reggono la nostra convivenza civile, a un modo di concepire la famiglia, la quotidianità, le relazioni tra i sessi, al futuro che ci attende, mentre i fatti mostrano una generale solidarietà e tolleranza della quale sono sintomo le miriadi di iniziative nel reticolo di una società generosa e aperta assai più di quanto pensi e, prima ancora, capace di cogliere nell’altro una vita “come la mia”, un bisogno fatto prossimo.
Quando ci chiedono come vediamo il presente e il domani mostriamo di aver paura di ciò che insidia quella «medietà» che sa tanto di incapacità ormai cronicizzata di uscire dal «ripiegamento» fotografato dal Censis nell’istantanea di tre anni fa: un’attitudine che ci consente di avanzare stando fermi – o viceversa –, «senza incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive e senza compiere scalate eroiche nei cicli positivi». Non ci fermiamo ma neppure corriamo, «ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo». Resilienti e cauti al punto da preferire la stasi all’esplorazione, dominati come siamo da oscure angosce senza nome generate da quello che ci si agita attorno.
È una terra di mezzo che rischia di tenerci prigionieri del buio, dentro il quale però, a ben vedere, sono più le possibili luci che le tenebre incombenti. E a lungo andare potremmo non saper più trovare l’interruttore.
Questo muoversi al rallentatore spaventati dall’ignoto finisce con il logorare la struttura delle nostre certezze, la cui fragilità crescente è forse all’origine di tanta circospezione: se non osiamo tempi nuovi è anche perché non sappiamo più chi siamo e in cosa crediamo, dicendoci cattolici al 71% – è il dato saliente della recente ricerca sugli italiani e la fede prodotta sempre dal Censis – ma forse senza sapere più in cosa consista e di quale forza sia capace ancora il patrimonio di questa radicata identità collettiva di valori condivisi. Anche perché il clima collettivo ci fa credere di essere dilaniati dalle distanze crescenti di idee, appartenenze, giudizi, tanto da vedere nella differenza una minaccia e non l’occasione per fare un passo avanti nella coscienza di ciò che siamo.
Essere consapevoli di noi stessi in quello che ancora ci costituisce e ci accomuna: ecco allora cosa potrebbe esserci necessario ora. Guardarci attorno con meno pessimismo e più fiducia in quello che ci unisce nel bene da consolidare o ricostituire, senza cedere all’impressione di essere “circondati” da un qualche nemico. La scelta emotiva lungo questo crinale decide se non ci rassegniamo a “galleggiare” evitando di cedere alla sfiancante spossatezza che la troppo lunga convivenza con la paura sta generando e che ieri sera, nel suo “rapporto annuale” del “Discorso alla città” per sant’Ambrogio, l’arcivescovo di Milano ha colto come la vera insidia di questo tempo: «Di cosa è stanca la gente?», si è chiesto monsignor Mario Delpini, dando semplicemente un altro nome alla domanda dalla quale siamo partiti. «È stanca di una previsione di futuro che non lascia speranza. È stanca di una vita appiattita sulla terra».
Sulla soglia ormai della porta santa del Giubileo – ognuno ha la sua da varcare, e così pure l’Italia e gli italiani –, è questa la grande questione collettiva che ci attende: in cosa speriamo?