Da Los Angeles mio figlio mi manda un’email con la scritta: «Voi fate incetta di pasta, noi invece...», segue la foto a colori di una piccola folla in coda davanti a un negozio. Sulla facciata del negozio campeggia una scritta, Guns, pistole. Ho detto 'piccola' folla, ma non è poi tanto piccola: conto gli uomini in fila, sono una quarantina. Una quarantina di clienti pronti per comprarsi una pistola. Il virus è arrivato anche là, ma non credo che lo si ammazzi con la pistola. Evidentemente l’epidemia ha acuito il senso di pericolo, cioè il bisogno di protezione, e là sono abituati che quando c’è bisogno di protezione si devono arrangiare ognun per sé. Non è un istinto dei poco acculturati.
È un istinto di tutti. Anche dei genî. Clint Eastwood abita da quelle parti, e dice: «In una stanza mi sento sicuro solo se appeso al muro vedo un fucile». Il pericolo aumenta il senso d’individualità. C’è l’epidemia, corriamo ad armarci. Contro chi? Contro tutti. E qua da noi? Qua la reazione è profondamente diversa, e non alludo soltanto alle suonate e alle cantate dalle finestre, che comunque sono una manifestazione di solidarietà, di nazionalità, di collettività: i vicini, con i quali i rapporti non sono mai stati idilliaci, si sgolano e si sbracciano per te. Alludo ad altre manifestazioni, prima inattese, ora frequenti.
Amici e amiche persi di vista da un decennio si rifan vivi. Per email, ma tu la loro email l’avevi perfino cancellata, adesso te la ricopi. Amiche sole, senza nessuno in casa, ti pregano di chiamarle ogni tanto. I figli, che sono sempre stati riservati (un modo per dire: la mia vita è mia), mandano messaggini generici, del tipo: «Come va?», ma fino a ieri non mandavano neanche quelli. S’interessano di te, insomma. Perfino i nipoti, di sera tardi, quando sei davanti alla tv, ti mandano un sms che arriva trillando e dice: «Tutto bene?».
La gente aspetta in fila fuori per acquistare armi a Culver City in California - Reuters
Qualcuno dice che le cantate e le suonate alle finestre di fronte sono la prova che esiste la nazione, esiste il popolo, che ha coscienza di essere 'uno': ti fa coraggio per farsi coraggio, tutti corriamo lo stesso pericolo. Per le stesse ragioni credo si possa dire che esiste la famiglia, e se i figli se ne sono andati e hanno fondato altre famiglie esiste il clan delle famiglie, i loro figli sentono di essere anche tuoi figli. Sinceramente, è una sensazione piacevole. Vedo che qualcuno è guarito dal virus, è stato a un passo dalla morte, ma è tornato fra noi, e appena ha potuto parlare ha chiesto due cose (mi riferisco a una donna, madre e nonna): 1) «Avrò danni permanenti? », 2)«Come stanno i miei nipoti? ».
Che la domanda sui danni sia formulata per prima lo capisco, significa in sostanza: 'Sono veramente guarita?'. Che subito dopo venga la domanda sui nipoti lo capisco pure: qui, con questa malattia, era in ballo la vita e i nipoti sono il prolungamento più lungo della vita, una vita che comprenda loro comprende tutto. Per noi i nipoti fanno parte del mondo, come noi per loro. Forse i nipoti che messaggiano alla sera chiedendo: «Tutto bene?», vogliono semplicemente sapere: «Il mondo è ancora il mondo?». Il mondo è il mondo se c’è ancora la famiglia, ci voleva il virus per farci capire che la nostra famiglia è la spina dorsale della nostra vita. L’epidemia ha mille effetti negativi. Ma riscoprire la famiglia non è male. La famiglia è un cerchio protettivo. Se vi chiamiamo dentro anche amici soli, che non hanno famiglia, la completiamo.