«La nostalgia è il desiderio di non si sa cosa», diceva Antoine de Saint Exupery. I Giochi della XXXIII Olimpiade sono finiti da due giorni e tutti noi, più o meno appassionati di sport, siamo attraversati da un sentimento che non è facile spiegare, come sosteneva il poeta francese. Abbiamo nostalgia di quella bellezza, armonia, passione totalizzante che il più pacifico degli eserciti, diecimila atlete e atleti in gara, ci hanno donato, tanto i vincitori quanto gli ultimi.
Abbiamo nostalgia di quella capacità di spingersi oltre il limite, verso il trionfo, ma anche di quel fermarsi o essere fermati a un centimetro, a un centesimo di secondo o a un punto dall’obiettivo di una vita, perché così è fatta la realtà. Abbiamo nostalgia degli urli di felicità e di quelli strozzati in gola, delle lacrime di gioia e di quelle di delusione che sono scivolate fin dentro ai nostri televisori, per sedici giorni consecutivi. Abbiamo nostalgia di quella capacità di competere per la bandiera della propria nazione, senza per questo offendere quella delle altre. Abbiamo nostalgia di sport che non avevano mai visto prima e di atleti che fino a venti giorni fa non sapevamo chi fossero, di giovani donne e giovani uomini di cui abbiamo imparato ad essere orgogliosi. Ma non è tutto qui: c’è qualcos’altro che ci manca enormemente, che andiamo oggi a cercare negli higlights, negli articoli, nei racconti di questa edizione dei Giochi Olimpici, pur consapevoli di trovarli in dose omeopatica rispetto all’intensità del momento in cui li abbiamo vissuti: credo si chiami fraternité e anche, come splendidamente ricordato nel corso della tanto discussa cerimonia di apertura, sororité.
Fratellanza e sorellanza come valori che smettono di essere utopia e si fanno corpo, muscoli, tendini, articolazioni e volontà. Sono di parte, ho dedicato quasi trent’anni della mia vita alla pallavolo e ho avuto per due volte l’onore di vivere il contesto olimpico proprio grazie al volley, ma -con enorme rispetto di tutte e tutti i nostri straordinari atleti- scelgo l’ultima nostra medaglia per cercare di spiegare quella nostalgia che oggi sentiamo. Le ragazze dell’Italvolley hanno realizzato un’impresa senza precedenti, nel senso letterale: una medaglia d’oro inseguita per 35 anni da un movimento intero, da generazioni di dirigenti, di tecnici, di atlete e di atleti che avevano visto vincere le proprie nazionali, seniores e giovanili, tutto, ma proprio tutto, nel mondo: anche sei medaglie olimpiche, mai quella lì. Finalmente domenica è arrivata, per sublimare l’attesa dell’intero popolo della pallavolo e anche per tante persone che in questi decenni hanno dato il loro contribuito per quell’obiettivo (mi perdonerete se suona retorico, ma mentre lo scrivo ho i brividi) e non hanno vissuto a sufficienza per vederlo realizzato. La medaglia dell’Italvolley femminile ha anche scoperchiato definitivamente un vaso di pandora: milioni di italiani, compresi coloro che a pallavolo hanno giocato l’ultima volta alle medie, si sono trovati a tifare e urlare di gioia per una squadra che rappresenta plasticamente un esempio di società moderna, nuova, aperta, frutto di meravigliose contaminazioni. Una squadra, nello sport più di squadra che esista, l’unico dove passarsi la palla è obbligatorio per regolamento, dove le differenze non esistono, anzi diventano punti di forza. Ecco, forse, di che cosa abbiamo nostalgia: di essere messi quotidianamente di fronte a un modello di società che non è solo “futuro”, ma che è già “presente” e capace di funzionare con tanta grazia. Un modello di società che non vuole avvitarsi su stessa, che è capace di accogliere, di valorizzare, di sbagliare, di correggersi, di migliorare e di essere migliorata. I Giochi Olimpici parigini ci lasciano questo sentimento struggente: un mondo migliore è possibile, era lì davanti ai nostri occhi, nella sua sfolgorante bellezza. Le atlete e gli atleti hanno fatto il loro compito, squarciando un velo. Ora tocca a noi e non è facile. Ecco, dunque, l’oggetto della nostra nostalgia: poter continuare a vedere in azione la parte migliore di noi, esseri umani.
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