martedì 9 febbraio 2016
 Le macchine scavano precipizi (anche in Borsa)
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Ci sono 'forze' tutt’altro che occulte a spingere da inizio anno le Borse all’ingiù. Ma è una variabile nascosta ad amplificare la caduta, trasformando la pioggia di vendite in una tempesta perfetta per la quale, al momento, non sembra esserci ombrello che tenga: la cecità connaturata di chi spara ordini a raffica senza tener conto del quadro economico, monetario o finanziario che sia, semplicemente perché il suo sistema nervoso digitale reagisce in una frazione di secondo a uno stimolo algoritmico. Proprio così: i mercati scenderebbero sicuramente anche da soli, dato il contesto, ma a mandarli al tappeto - generando panico - sono i robot. Partiamo in ogni caso da ciò che si vede ed è già di per sé preoccupante. I crolli delle Borse segnalano che è in atto una pericolosissima ritirata della liquidità. Sembrerebbe impossibile, giacché da sole la Banca centrale europea e quella giapponese stanno pompando ogni mese 110 miliardi di euro nel sistema. All’azione espansiva corrisponde purtroppo una reazione opposta - se non superiore - che ha origine nei grandi Paesi emergenti. È a questa 'forza', in particolare, che si riferiva la settimana scorsa Mario Draghi. Il tracollo dei prezzi petroliferi, il rallentamento dell’economia cinese e il rialzo dei tassi americani hanno indebolito le valute della Russia, della stessa Cina, dell’Arabia Saudita e del Brasile, per citare solo alcune delle economie coinvolte. Tutti Paesi che negli ultimi anni avevano non solo sostenuto la crescita globale, ma accumulato pure - grazie all’export di materie prime pagate per larga parte in dollari - enormi fortune in 'argenteria occidentale': riserve in biglietti verdi, euro, obbligazioni governative e societarie. Ora stanno 'svendendo' senza andar per il sottile, pur di proteggere, nella più classica delle 'guerre valutarie', le rispettive monete. E così risucchiano come fossero idrovore quella liquidità che Bce e Boj stanno invece cercando di assicurare per riportare l’inflazione a livelli adeguati. La fiammata registrata ieri dallo spread italiano è un effetto collaterale di questo drenaggio: via i titoli italiani e sotto con quelli tedeschi, il porto sicuro in caso di mare grosso. Ed è una ricaduta pericolosa per le nostre finanze pubbliche: a pagar cara la mancanza d’inflazione è purtroppo il rapporto tra debito e Pil. Il quale Pil, stando al denominatore, avrebbe al contrario bisogno di un po’ d’inflazione per diventare più grande e ridurre il rapporto con l’ingombrante inquilino del piano di sopra. Le vendite generalizzate colpiscono poi anche i mercati azionari, a partire dai titoli bancari. Le nostre banche sono altresì alle prese con il nodo dei crediti deteriorati e la loro 'sofferenza' in Borsa è quindi addirittura maggiore. Eppure questi 'fondamentali' non sono sufficienti a spiegare le chiusure isteriche dei mercati o a motivare il clima da recessione alle porte sulle piazze finanziarie globali dove i bersagli sono ormai aziende sane e malate, con bilanci in rosso o floridi senza distinzione alcuna. Ieri, ad esempio, non c’era dato macroeconomico o decisione di politica monetaria cui appigliarsi per giustificare una simile reazione. L’ondata di scioperi in Grecia che fa vacillare il governo Tsipras non rientra certo tra i fattori che possono scatenare una bufera di simili proporzioni. Il panic selling, come si chiama in gergo, è stato alimentato ancora una volta artificiosamente dal trading automatico. Dai software, cioè, ai quali si sono affidate con troppa leggerezza le chiavi della finanza. Un’operazione su due a Wall Street è ordinata oggi automaticamente dalle 'macchine' ad alta frequenza, sei su dieci comunque da algoritmi. In Europa siamo al 40%, ma in una giornata di strappi, al rialzo o al ribasso che siano, la percentuale è certamente superiore. Non ci sono allora correlazioni all’economia reale o previsioni di politica monetaria che tengano: il mercato scende? Si vende. Scende di più? I software aumentano gli ordini speculativi al ribasso per guadagnarci comunque. E vien giù tutto. Nel mondo delle 'forze' palesi, l’unica diga rimasta per arginare il grande deflusso dei Paesi emergenti è quella delle Banche centrali. La Fed americana potrebbe posticipare il secondo rialzo dei tassi ipotizzato a marzo. La Bce, come ha anticipato Draghi, è pronta ad ampliare nello stesso mese «quanto necessario» il programma di acquisto titoli (Qe). Probabile che entrambe si muovano in tale direzione. Per fermare le macchine, invece, servirebbe ben altro. Non bastano le misure disincentivanti già messe in atto anche a Piazza Affari. E nemmeno le nuove regole previste dalla normativa sui mercati finanziari europei 'Mifid 2' che entrerà in vigore nel 2017. È necessario un intervento coordinato a livello globale, da parte dei regolatori e della politica, che preveda limiti più rigorosi e magari una tassazione efficace sulle transazioni finanziarie ad alta frequenza e algoritmiche in generale, una 'Tobin Tax 2.0'. È quanto Francesco ha indirettamente chiesto il mese scorso ai potenti del mondo. Senza troppi giri di parole, nel suo messaggio al Forum di Davos, il Papa ha avvertito: «Non facciamoci comandare dai robot». Le 'macchine' scavano fosse e precipizi in cui finiscono imprese e persone. Ieri, ancora una volta, ne abbiamo avuto la prova.
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