La sequenza è questa: stanze del conforto, stanze del silenzio e, adesso, stanze degli abbracci. Sono sempre stanze in cui si cerca di uscire dal dolore, dalla solitudine, o perfino dal lutto. La definizione 'stanze del conforto' è la più antica, risale a otto-dieci anni fa, quando cercavamo un nome per la stanza dove la madre o le madri che avevano perduto i loro bambini, due-tre-quattro, per esempio in un incidente stradale, venivano portate a dare ai figli l’ultimo saluto, e restavano in compagnia dei loro piccoli, assistite da alcuni operatori della Sanità che le sorreggevano e gli parlavano.
Da scrittore, ho sempre cercato di sapere, ma non ci sono mai riuscito, chi erano e cosa dicevano questi confortatori del lutto, erano medici? Psichiatri? Psicologi? O erano preti o predicatori? Le parole del conforto esistono già, e si tratta di adoperarle, cosa che richiede una estrema saggezza, o non esistono e si tratta di inventarle, cosa che richiede una natura poetica, la capacità di recuperare una lingua creata per questi scopi, o addirittura di inventarla adesso?
Quando la stampa dava notizia di qualcuna di queste disgrazie multiple, in cui più di un bambino era coinvolto e quindi più di una madre, seguivo i giornali quel giorno e poi il giorno dopo e poi il giorno dopo ancora, nella speranza che qualche giornalista si fosse imbattuto in un confortatore, avesse sentito le sue parole, e le portasse alla conoscenza dei lettori. Non le ho mai sentite. Poi successe una disgrazia immensa, un’intera classe di bambini di scuola media, tutti sui 12 anni, provenienti dai Paesi Bassi, rimase distrutta in un unico incidente, un pullman che aveva sbattuto dentro una galleria delle nostre Alpi: tutti i bambini morirono sul colpo, fu allestita una camera per loro e furono fatte venire le madri per i riconoscimenti, perché i bambini di quell’età non hanno documenti. Per l’incontro madri-figli fu allestita una camera detta 'del silenzio'.
Aspettavo di capire chi poteva, come poteva dare conforto a quelle madri. Il fatto però che la stanza fosse chiamata 'del silenzio' e non 'del conforto' mi faceva pensare che non venissero usate le parole. Sui giornali nessuna notizia. Ma un giornale aveva mandato 'una' inviata, una donna, e questa era riuscita ad avvicinarsi di più al punto dove doveva dispiegarsi il conforto, e nel reportage scrisse che non sentiva nulla, nessuna parola, ma soltanto una mite, dolcissima musica. Ne dedussi che lo strumento per sollevare dal lutto non era la lingua, ma la musica. 'Stanze del silenzio' nel senso che non si parla, la parola è ruvida, scortica come una raspa. La musica è soffice e carezza come una piuma.
Ed ecco, oggi siamo arrivati alle 'stanze degli abbracci'. Le hanno inventate nelle Residenze sanitarie dove gli anziani vivono da soli, separati dai figli e dai nipoti. Una volta pensavamo che andare a trovare i nonni e abbracciarli fosse prova di affetto, più li ami più stai con loro. Adesso star con loro è pericoloso, hanno perfino misurato il rapporto tra le visite agli anziani e le morti degli anziani. Se li ami stai lontano. Li saluti via Skype. Ma Skype è un altro mondo, ritrovarsi in quell’altro mondo dà l’idea di lontananza, non di contatto. Ed ecco l’idea del contatto-senza-contatto, li incontri nella stanza degli abbracci, dove nipoti e nonni si presentano chiusi negli scafandri, la faccia incapsulata, le mani guantate. Abbracci il nonno o la nonna, ma è un frusciare di plastica, nessuna parte di te tocca nessuna parte di loro. Tuttavia è un abbraccio. Cerchi le guance, il petto, la faccia sotto la tela. E le senti. Le inventiamo tutte, pur di abbracciarci.