Al di là dell’esito, che tutti auguriamo sia positivo per la vita del bambino, il suo vero bene e quello dei suoi genitori, la tesissima vicenda del piccolo Charlie risulta istruttiva al fine di imparare a distinguere per (e prima di) unire, a comprendere in vista di (eventualmente) giudicare e a valutare ogni caso concreto tenendo conto dei soggetti e dei fattori in gioco, nessuno escluso. È comprensibile la 'fatica del pensare' e l’'attrezzatura del sapere' che questo richiede ai non addetti ai lavori medici, etici o giuridici. La tentazione di imboccare scorciatoie dall’apparente successo comunicativo più immediato – facendo risuonare più le corde del (ri)sentimento e le trombe della battaglia che lo sguardo discreto del realismo, della ragionevolezza e della moralità – è dietro l’angolo, ed è difficile resistervi. Ma è opportuno farlo, per non cedere terreno sullo stesso fronte in cui ci hanno trascinato e ingaggiano la tenzone coloro che accusano (ingiustamente) i cattolici di 'principialismo astratto', 'ignoranza scientifica e clinica', 'vitalismo oltranzista' o 'distanasia interventistica'. I grandi strateghi del pensiero civile e militare insegnano che è un errore fatale affrontare il contendente laddove si è attestato tenacemente e ci attende ben agguerrito: è preferibile fare un passo indietro e fermarci sulle nostre solide postazioni, riorganizzando le fila e verificando il munizionamento prima di lanciarsi in avanti e invitare al confronto in campo aperto. Proviamo a iniziare questo lavoro. Anzitutto occorre distinguere due questioni aggrovigliate in questo caso. Da una parte, la rottura del rapporto fiduciale reciproco ('alleanza per la cura') tra i genitori e i medici dell’ospedale londinese, occorsa sin dai primi mesi del ricovero. Dall’altra, l’interruzione dei 'supporti vitali' (ventilazione meccanica, idratazione e nutrizione clinicamente controllate, e altro) decisa unilateralmente dai medici in un tempo successivo. Sulla prima, nel caso di una malattia in rapida evoluzione degenerativa multiorgano come quella di Charlie la 'libertà di cura' riconosciuta al paziente o a chi ne fa le veci deve essere esercitata non appena completata la diagnosi dirimente e prospettata la prognosi: se i genitori non ritengono, per il bene del figlio, che l’assistenza offerta da un nosocomio sia la migliore disponibile, firmino subito la cartella clinica e trasferiscano il bambino (mentre è ancora in condizioni di trasportabilità in sicurezza) presso un’altra struttura specializzata. D’altro canto, il rispetto dovuto per la 'scienza' e la 'coscienza' dei medici curanti esige che non si forzi loro la mano esigendo che pratichino, nel proprio reparto, una terapia che essi non ritengono di dover tentare. Se i medici si oppongono al trasferimento clinicamente controllato del piccolo paziente presso un altro centro di riconosciuta qualificazione o se i genitori insistono nel chiedere che i clinici 'obbediscano' ai propri desideri terapeutici (per quanto giusti possano essere), inevitabilmente il rapporto fiduciale – fondamento di una buona pratica medica – va perduto e si può giungere anche al contenzioso giuridico (in questi casi inadeguato, perché incapace di vera soluzione).
Occorre peraltro considerare la peculiarità della malattia rarissima di Charlie, che avrebbe richiesto, sin dalla diagnosi genetica, una decisione concertata tra i medici del Great Ormond Street Hospital, i colleghi di altri Paesi che hanno avuto in cura casi simili (sinora sono 18, in tutto il mondo) o stanno facendo ricerche terapeutiche, e i genitori, ricorrendo alla prassi consolidata della «medical second opinion» (consulenza da parte di clinici esperti esterni). Altra questione è quella della sospensione o meno delle cure intensivologiche da cui dipende, nelle attuali condizioni cliniche (diverse da quelle dei primi mesi di ricovero), la sopravvivenza del bambino. La sola ragione medica ed etica di un’eventuale sospensione – decisione auspicabilmente condivisa con i genitori – è duplice: il repentino peggioramento del quadro clinico che lascia intravvedere come imminente la morte per cessazione irreversibile dell’omeostasi, oppure il soddisfacimento dei criteri neurologici per l’accertamento della morte nei casi previsti dalla legge, pur in presenza di una residua funzionalità cardiorespiratoria assistita. A quanto è dato di sapere (salvo migliori conoscenze), Charlie non ricade, in questo momento, in nessuno dei due casi. La sospensione dei 'supporti vitali', se attuata, ora si configurerebbe come causa diretta e prossima della sua morte (anticipatamente rispetto all’esito del decorso prognosticato della sua malattia). Non risulta, invece, accettabile – e su questo campo aperto occorre sfidare i suoi sostenitori – una motivazione di tale sospensione che si appellasse alla 'misera qualità' o alle 'scarse aspettative di vita' del bambino: una sfida che richiede robuste ragioni antropologiche e teologiche, di cui la tradizione cristiana non manca certo. Infine, è del tutto clinicamente ed eticamente fuorviante ogni inferenza basata su presunte analogie tra un bambino nel primo anno di sviluppo, affetto da una encefalopatia metabolica progressiva da accumulo di molecole tossiche endogene, e un paziente adulto in stato vegetativo persistente stabilizzato, esito di un trauma o di un evento anossico cerebrale, quale era Eluana Englaro. Le due condizioni neurologiche e generali non sono simmetriche né confrontabili, e le argomentazioni mediche, morali e giuridiche si intersecano in piani non paralleli.