Dieci mesi di pandemia si sentono tutti. Sarà l’inverno, saranno le feste natalizie – così diverse da quelle a cui eravamo abituati – ma la stanchezza e lo spaesamento sono sempre più palpabili. L’arrivo del vaccino è certamente una buona notizia. Ma la campagna vaccinale sarà lunga e complicata, mentre è ormai chiaro che nei prossimi mesi il virus continuerà la sua corsa, costringendoci a tenere alte le misure di protezione e il distanziamento sociale almeno per tutto il primo semestre del 2021. Nella speranza di riuscire a evitare un nuovo lockdown prolungato.
La nostra resistenza – individuale e istituzionale – messa a dura prova. Il governo ha prorogato fino a marzo il blocco dei licenziamenti e ha approvato nuove misure per sostenere l’economia. Ma non si può pensare di andare avanti così per molto tempo. L’annunciato rimbalzo economico sarà più fiacco del previsto. La paura, la solitudine, la rabbia crescono nel cuore di molti, mentre le file fuori dalle mense Caritas fanno affiorare la concretezza dei problemi quotidiani di tanti.
Di fronte a tutto questo non basta dire "state buoni, arriverà presto la ripresa". Prima di tutto perché sono ormai troppi quelli che, sulla base della propria personale esperienza che da tempo va esattamente nella direzione opposta, non ci credono più. E poi perché, se è vero che la pandemia è essa stessa conseguenza di un modello di sviluppo sbagliato che ha fatto aumentare le disuguaglianze e creato forti squilibri nell’ecosistema, non si può indicare come cura quella che è la causa della malattia. Se c’è una cosa che questa crisi ci sta dicendo è che una semplice crescita quantitativa produce ormai talmente tanti problemi da annullare i benefici.
Le criticità sono così tante da sembrare insormontabili. Occorre essere molto concreti per contrastare la disoccupazione, sostenere le imprese, riformare la scuola e la sanità, avviare nuovi investimenti. Ma per quanto si possa e si debba fare presto e bene, il tempo che ci separa da un nuovo equilibrio, da una situazione migliore di quella in cui siamo finiti non sarà breve. Un bel problema: nel mondo della "gratificazione immediata", del tutto e subito, dei risultati a brevissimo termine, come si può riaprire il futuro?
Come direbbe l’antropologo Ernesto de Martino, di fronte alle crisi si apre la possibilità di una odologia (da odós, strada), una riflessione rigorosa sulle vie e sui sentieri possibili a partire dalla nuova situazione, per far sì che la dimensione mortifera del trauma non soffochi completamente le occasioni vitali che a partire da esso si dischiudono comunque.
"Concretezza" oggi vuol dire essere capaci di indicare una direzione di senso che permetta di orientare e tenere insieme i comportamenti di tutti sul piano economico (con imprese capaci di capire che solo la scelta della sostenibilità ambientale e dell’investimento sulle persone può permettere di rimanere sul mercato), politico (con istituzioni in grado di rendere effettivo il senso del comune destino che mai come in questo momento siamo tornati ad avvertire) e sociale (con un nuovo protagonismo della società civile, basato sull’idea di una solidarietà contributiva che riconosce e insieme affida a ognuno il compito di accrescere il bene comune).
In questo quadro, non è retorico affermare che le due encicliche di papa Francesco – Laudato si’ e Fratelli tutti – hanno la forza simbolica per delineare le coordinate di riferimento del futuro possibile che insieme possiamo immaginare. Nel sottolineare aspetti complementari – la questione ambientale, da un lato, e i temi sociali, dall’altro – le due encicliche toccano il rimosso del nostro tempo individualista.
Vera origine della crisi che viviamo: aver dimenticato, cioè, che tutto è in relazione con tutto, che nessuno si salva da solo, che non c’è crescita economica senza sviluppo sociale, che protagonista e destinatario della sviluppo non può essere che l’essere umano nella sua integralità (materiale e spirituale, individuale e collettiva).
Guardiamoci attorno. Non ci sono altre ipotesi significative. Salvo naturalmente le promesse – così grandi da diventare esorbitanti – dell’innovazione, della scienza, della tecnologia. Realtà preziosissime (lo constatiamo col vaccino) che però, da sole, non sono in grado di soddisfare né le domande individuali né le esigenze collettive. Il discorso tecnocratico non basta. Per evitare di finire risucchiati dal cinismo che la crisi pandemica porta con sé, occorre una bellezza, un nuovo desiderio, una speranza comune, un avvenire che non sia la mera ripetizione di ciò che conosciamo già. Ci serve riconoscere una sfida che impegni tutti, a cominciare dalle nuove generazioni alle quali è affidata una responsabilità particolare per ciò che saremo in grado di costruire.
E ciò vale in modo particolarissimo per la vecchia Europa, che da troppi anni si dibatte nel tentativo di trovare la sua identità. Forse potrà sorprendere qualcuno. Ma mai come oggi la speranza che nasce dal Vangelo può essere il lievito per una profonda trasformazione della vita sociale.