Quel pacco di tritolo che gli inquirenti avevano trovato due settimane fa, sotterrato ai piedi di un albero a Gioia del Colle schizza ora fuori dalla storia delle lotte intestine fra cosche mafiose e disegna uno scenario di escalation criminale: quel tritolo era destinato ad uccidere il procuratore di Napoli. I magistrati indagavano su un tentato omicidio contro un giovane di Bari colpito in un agguato, e adesso scomparso, e forse bersaglio di una ritorsione per un altro agguato della settimana prima, e quella volta col morto, e si sono trovati a scrutare dentro ben altra storia. Parola di un pentito che sta in galera e ha preso a collaborare con la giustizia. Dentro quel cerchio segreto di rivelazioni e di confidenze, che apre piste introvabili nell’intrico dei misteri di mafia, ma è al tempo stesso un azzardo fino all’esito, l’inchiesta che ora ne discende affronta un fondale di portata diversa, un salto qualitativo rispetto alle sanguinarie contese per il predominio di una banda sull’altra: il
nemico è l’uomo della legge, l’uomo dello Stato; il nemico è lo Stato, e il suo servo va distrutto. Non è una novità in assoluto, questo alzo del tiro. Anzi, è il segnale che accompagna lo scontro mortale fra due concezioni conflittuali della società e della vita, quando la storia le convoglia dentro la strettoia del confronto finale: o si vive insieme, nella legalità, o si lotta contro, senza quartiere. È già accaduto, negli anni marchiati come «notte della Repubblica» quando il delirio terrorista falciò (tra molti altri) i giudici per odio del simbolo e per negazione mortale della «giustizia di Stato». È accaduto ancora circa vent’anni fa, con le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, come l’odio che annoda vendette e minacce in atroce lezione di crudeltà senza limite. Abbiamo superato l’uno e l’altro gomito di storia, e non abbiamo smesso di lottare contro la paura e le mafie. Ma se ancora tornano questi neri fantasmi, se di nuovo contro il magistrato che persegue in nome dello Stato i delitti di camorra si apparecchia il tritolo, vuol dire che nella nostra lotta abbiamo sbagliato i mezzi di contrasto o non abbiamo saputo organizzare una controffensiva vittoriosa. Non è pensabile che freni l’arruolamento mafioso lo spettro del 41bis, questa specie di Spielberg spietato, se non forse a far spietata anche la determinazione criminale per non cadervi. La mano tesa a far sconti ai 'pentiti' è pagante oltre le ripugnanze, quando i pentimenti a catena fanno franare l’intera struttura prima che si ricomponga; eppure ha le sue incognite, i suoi azzardi, persino i suoi depistaggi. Efficaci sono le misure di prevenzione patrimoniali, i sequestri, le confische (oltre 27mila a fine 2015) e il recupero dei beni sottratti, destinandoli ad attività sociali; ma spesso questi progetti virtuosi si estenuano, si spengono come rivoli in una terra arsa. La soluzione va scavata in profondità. Una frase detta da Falcone resta folgorante: «La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta
simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società». Oggi è finalmente diffusa la coscienza che cosa nostra, camorra, sacra corona unita, n’drangheta, sono sigle impastate col medesimo fango e col medesimo sangue. Oggi ci ribelliamo tutti alla prepotenza, alla cupidigia, al tritolo, al cancro delle mafie. Ma forse la ribellione 'parlata', e spesso celebrata, e compiaciuta della propria ostentazione non basta più: deve trasformarsi in ripudio vissuto, cioè agito, condiviso, corale, fino a spezzare per sempre quella simbiosi. Se vogliamo, siamo più forti del male.