«Se l’Iran avrà la bomba atomica, la svilupperemo anche noi, il prima possibile». Mohammed bin Salman Al-Saud (che i media abbreviano in MbS), il 32enne principe ereditario e ministro della Difesa saudita, ci ha abituati a scelte politiche e verbali nette, impetuose e spesso divisive. Stavolta, MbS si è però esercitato sul tema scottante che domina la vigilia del suo viaggio americano: il nucleare degli iraniani, regolato da un accordo multilaterale mai così in bilico, e quello, in fase iniziale, dei sauditi. Di cosa discuteranno Donald Trump e Mohammed bin Salman alla Casa Bianca, durante l’incontro programmato per martedì? In primo luogo, lo Yemen in piena crisi umanitaria, che sta entrando nel quarto anno di conflitto.
L’Oman starebbe facilitando colloqui informali ed extra-Onu tra gli insorti huthi e i sauditi (come nel 2016), ma Riad non può accettare compromessi sulla capitale Sana’a, ancora in mano ai ribelli che lanciano missili (anche di fabbricazione iraniana, come scritto per la prima volta dalle Nazioni Unite) sul Regno. Poi, c’è il boicottaggio del Qatar da parte di Arabia, Emirati Arabi e Bahrein. Il presidente americano vorrebbe organizzare un vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo a Camp David: iniziativa in salita, se l’embargo verso Doha non sarà allentato. Il Piano di sviluppo quinquennale appena presentato dal Qatar, improntato all’autarchia, conferma che la crisi potrebbe durare nel tempo.
Persa la Siria, Washington e Riad si concentrano sull’Iraq per recuperare influenza nel Levante: il business della ricostruzione e le elezioni legislative del prossimo maggio sono due finestre di opportunità. Quanto al tema della pace fra israeliani e palestinesi, esso viene tristemente 'rianimato' proprio in occasione di bilaterali come questo. Il tour americano di Mohammed bin Salman ( Washington più otto città) sarà uno studiato viaggio di promozione mediatica ed economica: l’Arabia Saudita a crescita zero e in piena trasformazione 'oltre il petrolio' ha urgenza di stringere affari, tanto a Oriente quanto negli Stati Uniti. C’è però un dossier che catalizzerà l’incontro fra Trump e il principe: l’Iran. Nel giro di poche settimane, la Casa Bianca potrebbe rimescolare gli equilibri del Golfo, utilizzando, geopoliticamente, proprio l’arma nucleare.
L’ultimatum del presidente americano ai negoziatori europei è stato chiaro: riscrivere l’accordo sul nucleare iraniano (2015) entro il 12 maggio, o Washington ne uscirà unilateralmente. Gli europei, con la Francia in primis, lavorerebbero a un accordo supplementare sui missili iraniani (esclusi dal nuclear deal) per offrire qualcosa agli americani, pur preservando l’impianto dell’accordo. Il Segretario di Stato Usa all’energia ha incontrato l’omologo saudita a Riad: gli Stati Uniti starebbero per formalizzare un accordo di cooperazione sul nucleare civile con l’Arabia Saudita. Nel 2010, Riad ha avviato un programma nucleare per fini civili (16 reattori da costruire entro il 2030, il primo entrerebbe in funzione nel 2022). Gli Emirati Arabi Uniti, partiti nel 2008, sono oggi in fase più avanzata dei sauditi (la prima unità dell’impianto di Barakah 1 sta per essere completata). Abu Dhabi si è però formalmente impegnata, nel 2009, a non procedere all’arricchimento dell’uranio e al riprocessamento del plutonio, acquisendo così la 'gold standard' per la nonproliferazione.
In passato, l’Arabia Saudita ha invece snobbato l’ipotesi della 'gold standard', benché Riad sia tra i firmatari del Trattato di non proliferazione del 1968 (ma lo è anche Teheran). Per Washington, cooperare al programma nucleare saudita potrebbe essere il primo meccanismo di controllo dei suoi reali fini civili. Tuttavia, 'giocare con l’uranio', buttando la questione dell’arma atomica nella contesa regionale fra sauditi e iraniani, non contribuirà certo alla sicurezza del Medio Oriente. Anche se è probabile che Trump e Mohammed bin Salman esplorino questa strada.