M ilano, aprile – Il sagrato di una chiesa di periferia, un sabato mattina. Una piccola folla di invitati vestiti a festa si accalca fuori dal portone. I bambini corrono qui e là, eccitati. Attorno, il traffico scorre intenso. Chi va al mare, chi a fare compere. Qualcuno passa carico di borse della spesa da cui spuntano sedani e lattughe. Poco lontano c’è mercato. Finalmente dalla chiesa si affaccia la sposa. È bruna, molto giovane, e l’abito è quello che si sogna da bambine: candido, vaporoso, il velo di tulle che cade morbido sulle spalle. Una bellissima sposa. Gli invitati vociano, scattano foto, lanciano grandinate di riso sui due ragazzi abbracciati. 'Bacio, bacio!' intonano in coro, e la piccola folla attorno applaude. Allora io, che passo per caso, mi volto verso la piazza: tutti si sono per un momento fermati, gli occhi verso la chiesa. Tutti stanno guardando la sposa. Qualcuno posa a terra le sporte del mercato, e una bambina tira la madre, per andare a vedere meglio. Gli avventori di un bar si sono affacciati, e quando al semaforo scatta il verde qualcuno, assorto a fissare la scena, riparte in ritardo, spronato da un clacson impaziente. Perché, per un istante, tutti stanno guardando la sposa. Che cosa strana: nel tempo in cui non ci si sposa ma si convive, e comunque in genere non troppo a lungo, nel tempo del matrimonio tardivo o precario, del divorzio breve o fulmineo, perché in questa piazza di periferia stamattina ci voltiamo tutti a guardare la ragazza vestita di bianco? E perdiamo tempo, indugiamo, tardiamo – noi che al tempo badiamo così tanto. È che, forse, qualcosa in quell’abbraccio fra un uomo e una donna ci strappa ancora una inconfessata commozione. Come se, ancora, desiderassimo, sperassimo, che quei due si possano volere bene per sempre. Per sempre? Eppure sappiamo tutti come amaramente finiscono tanti matrimoni – fra liti, avvocati, alimenti, e figli contesi e divisi, a sabati alterni. Per sempre? Quanti di noi ormai hanno alle spalle, almeno in famiglia, uno di questi fallimenti. E allora perché commuoversi un sabato mattina, davanti a due ragazzi emozionati? Perché il desiderio che l’amore duri per sempre abita in noi, tenace. Come un gene che non si manifesta, ma resta, e si tramanda a chi nasce. Perché abbiamo addosso, confusa forse eppure ancora leggibile, una domanda di bene che non finisca, non si smentisca; che perdoni, e ricominci, e si ostini. Per sempre, l’inammissibile sogno galleggia sulla piazza indaffarata: non tanto, però, da non voltarsi, da non fermarsi per un pensiero, o un rimpianto. Qualcuno poi riafferra le borse della spesa, e a spalle un poco più curve, adagio, si allontana. Quel fiore vaporoso di tulle candido ha attraversato la città sbiadita, e, per un istante, ne ha svelato una segreta domanda.
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