La guerra – insegna Hannah Arendt – non ripristina i diritti bensì ridefinisce i poteri. Sacrificando – lo stiamo vedendo ora dopo ora – sull’altare degli egoismi geopolitici, dell’intransigenza, dello strabismo strategico il presente e il futuro di esseri umani e popoli. Dire «mai più guerra», allora, non è utopismo ingenuo, nonostante tanti – non proprio disinteressatamente – continuino a ripeterlo. Semmai è la constatazione, fin troppo realistica, che lo scontro armato aggrava invece di risolvere i problemi esistenti.
«Ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future», si legge ancora in Fratelli tutti. È quantomai urgente, dunque, come ha affermato il cardinale Gualtiero Bassetti a Firenze, in questi giorni capitale mediterranea di pace, «trasformare la nonviolenza in prassi politica».
Un appello rivolto in primo luogo ai cristiani, seguaci di un Messia disposto a lasciarsi crocifiggere e mai a crocifiggere. Ma anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà chiamati il prossimo 2 marzo dal Papa a pregare e a digiunare – e a riflettere, per quanti non credono – insieme. Uno sforzo inutile? La politologa Erica Chenoweth dell’Università di Harvard – non proprio un’ingenua – ha coniato, sulla base di centinaia di analisi empiriche, la “regola del 3,5 per cento”: nessuna mobilitazione nonviolenta è mai fallita quando ha riunito il 3,5 per cento della popolazione in modo continuativo. Non c’è altra via al di fuori della pace. O meglio, la pace è l’unica strada.
Pace e piedi. Anche nell’etimologia i due concetti sono legati. In entrambi si riconosce la radice indoeuropea che indica ciò che è stabile, fisso, solido.
L’opposto della “werra”, da cui “guerra”: la mischia, il caos cruento. Non sorprende, dunque, che fin dagli esordi, il movimento per la pace abbia scelto il “camminare” come prima forma di espressione. Fu il Mahatma Gandhi, nel 1930, a sfidare l’impero britannico chiedendo agli indiani di mettersi in moto, con la grande “Marcia del sale”. Una scelta ciclicamente riproposta, nei decenni successivi. È sufficiente ricordare i pellegrinaggi contro il conflitto in Vietnam o quelli nel Golfo. O, in Italia, l’ormai tradizionale Marcia Perugia-Assisi, ideata da Aldo Capitini. Ora, di fronte al «tremendo tradimento» della guerra riesplosa nel cuore dell’Europa, il popolo della pace si è rimesso in cammino.
La fiaccolata di ieri al Colosseo e le marce di oggi in decine di città, da Aosta a Cagliari, sono la risposta non solo ai carri armati russi a Kiev ma anche a quanti si affrettavano a certificare – spesso in modo capzioso o ironico – la morte del «pacifismo». In realtà – anche se allo sguardo miope sfugge –, esiste un vasto e articolato universo di persone, associazioni, gruppi che si spendono, ogni giorno, per edificare la pace attraverso l’impegno per il disarmo, l’abolizione delle armi nucleari, il contenimento delle spese militari, solo per citare alcuni esempi. Un lavoro paziente in grado di produrre frutti buoni, come il bando all’atomica, approvato dall’Onu e in vigore dal 22 gennaio 2021.
Il «popolo della pace» insomma cammina nel quotidiano, non solo nei grandi raduni che pure, in momenti come quello attuale, sono importanti. E lo fa, spesso, in punta di piedi. O magari con le ginocchia doloranti. Come papa Francesco che, a mezzogiorno di ieri, si è recato alla rappresentanza diplomatica russa per esprimere la propria preoccupazione. Il Pontefice ha percorso via della Conciliazione a bordo della solita utilitaria per incontrare l’ambasciatore Alexander Avdeev.
Francesco non si è limitato a parlargli per telefono o a convocarlo in Vaticano, si è messo in movimento, incarnando quanto scritto inFratelli tutti: «Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”». La nonviolenza, dunque, è tutt’altro che passiva. È un moto incessante, ostinato, caparbio perché non ci si può rassegnare alla «falsa soluzione» della guerra.