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La crisi demografica sta azzerando l’adozione internazionale. Un numero progressivamente minore di nascite, nel ricco Occidente ma anche in Estremo Oriente, si traduce in sempre meno bambini disponibili. Ormai la metà del mondo meno ricco, quello da cui proveniva la maggior parte dei piccoli adottati in Europa e negli Stati Uniti d’America, ha chiuso le frontiere.
Pesano scelte politiche diverse. Da una parte il sovranismo che contagia gran parte dell’Est Europa, dall’altra la decisione di numerosi Paesi di negare l’espatrio ai bambini sani e di concederlo solo a quelli più problematici. Ragazzini spesso già grandi, oltre i 12 anni, che dopo una lunga permanenza negli istituti presentano situazioni esistenziali e condizioni psicologiche tutt’altro che agevoli da affrontare per una famiglia pur di buona volontà. Di fronte a queste difficoltà oggettive non c’è da stupirsi che il numero delle adozioni internazionali abbia fatto registrare il dato più basso dell’ultimo ventennio, solo 969 nel 2019, anche se i bambini arrivati concretamente in Italia rimangono oltre 1.200. Pesano poi altri fattori: dal crescente individualismo al più generale indebolimento della famiglia.
Se è già difficile, e sempre meno frequente, decidere di mettere al mondo un figlio, figurarsi che tipo di scoglio può rappresentare una strada come quella dell’adozione all’estero: lunga, economicamente costosa e tuttora impervia dal punto di vista burocratico. Fatte salve le complicazioni oggettive del percorso adottivo, esistono alcune conseguenze del crollo delle adozioni di cui non si parla abbastanza.
Oggi, lo sappiamo, la gran parte delle coppie che presenta domanda di adozione internazionale ha già affrontato la trafila della fecondazione assistita e ne è rimasta delusa. A quegli aspiranti genitori, già segnati da una 'sconfitta', gli enti autorizzati offrono, quasi sempre, una formazione approfondita affinché mettano a fuoco il nuovo percorso intrapreso: se la prima (ovvia) motivazione di tutti è avere un figlio, generare vita, diventare madri e padri, l’adozione internazionale racchiude in sé, nelle sue stesse premesse, un passo in più, che si matura strada facendo. È l’incontro non con un bambino qualsiasi, ma con un essere umano che ha già subito la più crudele delle ingiustizie - l’abbandono - e aspetta una mamma e un papà che lo restituisca al mondo. È il volere/dovere riparare le sue ferite, pensare prima a lui che a sé stessi nel farlo diventare finalmente figlio attraverso un abbraccio senza condizioni.
È mettere il suo diritto alla felicità davanti a tutto. A rischio di scivolare nella retorica, adottare un bambino di origine straniera è - non solo idealmente - un piegarsi sui mali del mondo e accollarsene una minuscola porzione. Con l’estinguersi dell’adozione internazionale, il rischio è che questo sguardo di accoglienza totale del bambino ferito si appanni, persino si disperda. Il secondo effetto collaterale dell’estinzione dell’adozione internazionale è l’indebolimento della cooperazione allo sviluppo generata dagli stessi enti, che per legge sono obbligati a operare in seno alle comunità locali dei Paesi in cui operano, in una logica di 'restituzione'.
I dati sembrano suggerirci che le coppie disponibili ad accogliere nel loro cuore, e poi concretamente nella loro vita di tutti i giorni, questa dimensione di mondialità, siano sempre meno. Una piccola, grande ricchezza per tutta la società che scolora e si illanguidisce. Ma forse non è del tutto così. Se con i numeri non si discute, è altrettanto vero che le strade per mettere da parte la rassegnazione e aprire nuovi squarci di speranza esistono. Nell’attesa riforma dell’ormai datata legge 184 del 1983 si potrebbe per esempio inserire percorsi di affido internazionale o di adozione 'attenuata', per non recidere totalmente i legami dei piccoli con le famiglie e le terre d’origine, convincendo allo stesso tempo i Paesi diventati oggi più gelosi della propria infanzia che nessuno intende depredarli di quel tesoro di vita e di futuro.
Soluzione già tentata da altre nazioni con risultati non disprezzabili. Ma non va neppure trascurata la possibilità di aprire nuovi spazi, coinvolgendo negli accordi bilaterali Paesi finora rimasti ai margini delle iniziative diplomatiche, soprattutto in Africa. Gli oltre 150 milioni di bambini orfani nel mondo (dati Unicef 2015) rimangono una evidenza che interroga la nostra umanità, oltre che la nostra coerenza cristiana. Per schiudere questi nuovi percorsi sarebbe necessaria una politica capace di allargare lo sguardo, coraggiosa nel tentare soluzioni inedite, disponibile a offrire alle famiglie più generose – che non mancherebbero – l’opportunità di soluzioni inedite e concrete.
Con norme più agevoli e sostegni economici adeguati. Ma bisogna fare presto. Intervenire e rinnovare con coraggio. Altrimenti il rischio che la cultura dell’adozione internazionale finisca per spegnersi, azzerando una delle esperienze più nobili e più dense di giustizia e di umanità avviate nel secondo dopoguerra, è terribilmente reale. Noi continueremo a batterci, con le risorse della buona informazione, perché questa bellezza non tramonti.