La Costituzione americana sancisce, tra i diritti inalienabili, quello al perseguimento della felicità. Un principio che i padri fondatori degli Stati Uniti hanno ritenuto indispensabile mettere nero su bianco (e che ha ispirato il film premio Oscar di Gabriele Muccino “La ricerca della felicità”). Forse per molti può sembrare superfluo decretare in materia. Ma forse, invece, si potrebbe riflettere su cosa significhi per i cittadini, ma ancor prima per donne e uomini tutti e di tutte le età, poter tendere alla felicità. Per i bambini sono i genitori a prodigarsi (e qui le leggi sono un continuo work in progress), salvo poi lasciarli liberi di provvedere a sé stessi nel corso della loro vita.
Questa settimana è morto a 89 anni Donald Triplett, Don per gli amici, conosciuto anche come il “Caso 1” nella storia della diagnosi dell’autismo. Oggi diremmo il “paziente zero”. Ma Don non può essere etichettato solo come paziente, in primo luogo perché era un essere umano come tutti e in quanto tale ha vissuto, poi perché gli autistici non sanno troppo pazientare. Ebbene, la sua storia è ormai di dominio comune ed è una di quelle affascinanti che si può leggere (oltre che sui trattati scientifici) in un libro, su diversi articoli di riviste e giornali, tanto che a dare l’annuncio della sua scomparsa è stato il “New York Times”.
Donald ha avuto la fortuna di essere nato da genitori molto combattivi (ma anche di grande cultura e con capacità economiche importanti), tanto da non arrendersi alle scarse conoscenze e ai pregiudizi del secolo scorso sulla disabilità, su cui molto ancora c’è da conoscere e fin troppi muri sono ancora da abbattere.
E con un mix di studio, ricerca, tenerezza, amore e accoglienza, la sua piccola città di Forest, nel Mississippi, ha potuto fare da scudo al suo “genio” della matematica, che ha lavorato nella Banca di famiglia, dopo aver concluso l’intero percorso scolastico, e che non si è fatto mancare periodi di vacanze in posti esotici, raggiunti anche in piena solitudine. Una vita appagante, dunque. Con le criticità della sua condizione, certo.
Ma che la gente del posto non ha voluto catalogare molto diversamente dalle criticità di ognuno di noi. Ebbene, con gli anni abbiamo avuto modo di capire che ci sono tanti livelli di autismo, come esistono tanti diversi disturbi mentali che rendono disabili molti esseri umani. Non tutti gli autistici e non tutti i malati psichici sono in grado di comunicare. Non tutti possono studiare, non tutti sanno stare con gli altri. E la difficoltà di entrare nel mondo del disagio psichico può creare un blocco e anche fare paura. Ma soprattutto non tutti sono in grado di ricercare la felicità da soli. E però non si può negare che ci siano occasioni, modi e motivi di felicità anche per chi è intrappolato in un mondo con confini difficilmente esplorabili. I disabili sono spesso chiamati “ragazzi”, perché la loro mente resta sempre bambina.
Ma il fisico cresce, si trasforma, invecchia. Un processo che vede cambiare le esigenze e anche i gusti. Sì, i gusti. Spesso le loro esigenze sembrano minime, ma in quel minimo, in un gelato, un pennarello, una canzone, una banda, una festa, anche in una Messa, si assiste a quell’emozione che possiamo chiamare felicità. Ci sono anche malati psichici che non sorridono, ma tutti in qualche modo si esprimono. Anche quando è difficile decifrarli. E se ci si sintonizza con il linguaggio del cuore, forse non ci sarà un segno sul volto, ma di certo si può avvertire quel brivido che si chiama vita.