Mes e posto dell’Italia: nella Ue o fuori?
martedì 3 dicembre 2019

È giusto che i nostri politici dibattano, anche appassionatamente, sul contenuto e sulla opportunità della partecipazione italiana al Trattato per il meccanismo europeo di stabilità, l’ormai famoso Mes. Gli europeisti come noi, infatti, non sono affatto contenti della logica algida che, sotto un cielo basso e senza stelle politicamente e socialmente splendenti, continua a guidare passi pur attesi sulla via dell’Unione (e l’acuta e niente affatto compiacente analisi di merito sviluppata da Francesco Gesualdi che pubblichiamo oggi in prima pagina aiuta a capirlo). Non scandalizzerebbero, perciò, né i toni accesi né la nettezza della contrapposizione, se fosse chiaro che ci si sta concentrando in modo serio e non propagandistico su questo o quell’aspetto del Trattato. Ferisce e allarma, invece, che manchi l’onestà di dichiarare con trasparenza ai cittadini-elettori il vero senso della disputa in corso. Che non è più il Mes, ma l’Italia e il suo futuro. Europeo o no.

Il Trattato in questione, infatti, anche così com’è, non espropria affatto il Governo e il Parlamento di Roma del potere-dovere di gestire i conti nazionali, e non sancisce – checché si dica e sia stato sostenuto, come sabato scorso ha spiegato sulle nostre colonne Marco Girardo – nessun automatismo che, in caso di crisi finanziaria, porti inesorabilmente a una ristrutturazione del debito a spese degli investitori in titoli di Stato. Gli investitori cioè coloro che, nelle verticali polemiche d’occasione e in titubanze degne di miglior oggetto, stavolta e quasi per la prima volta non sono più evocati come i 'mercati' internazionali, ma – guarda caso – vengono riconosciuti e indicati come i 'risparmiatori' nazionali.

A maggior ragione quando si parla di banche, delle quali il Mes si occupa non per svuotare nottetempo i conti dei risparmiatori-correntisti, ma per sostenere un fondo anti-speculazione. Ci sono miglioramenti possibili del Trattato? Certo, eccome. E un supplemento di riflessione e di concertazione potrebbe essere proficuo e probabilmente lo sarà, sebbene sia difficile immaginare nell’Europa a Ventisette di oggi, anzi in questo caso a Diciannove (i Paesi dell’euro), più spettacolari ed efficaci rilanci 'unionisti' rispettosi di ogni storia e di ogni condizione reale di Stati e cittadini.

Ma riguardo al Mes l’autentica questione 'italiana', insistiamo, appare sempre più l’intenzione o meno di mantenerci nell’Eurozona cioè nella Ue. Battere e ribattere sul tasto di ciò che di più infausto potrebbe avvenire 'a causa del Mes' nell’evenienza di una nuova crisi di fiducia nei confronti dell’affidabilità dei titoli del debito pubblico del nostro Paese che cos’è se non un mettere le mani avanti? Perché mai dovremmo tornare a una condizione di grave e drammatico rischio (come nel 2011) se non per scelte spregiudicate e autolesioniste?

E perché mai dovremmo lavorare contro la stabilità dell’Eurozona e riprendere la guerra di parole e di ostruzione in sede Ue se non perché un qualche Governo italiano – anche contro il vero interesse nazionale e dei singoli cittadini, ma secondo una visione autoreferenziale e isolazionista – ha deciso di perseguire un progetto di Italexit? Ad ascoltare le voci di dentro del nostro Parlamento non c’è da dormire sonni tranquilli. E sarebbe davvero una pessima notizia se, come potrebbe addirittura essere, sino ai quattro quinti degli attuali gruppi parlamentari dovessero mandare segnali ambigui sulla rotta saldamente europea dell’Italia.

Negoziare e coguidare si deve, come dimostrano di aver chiaro sia la nuova Commissione Ue (disposta a concedere altri due mesi al confronto) sia il premier Conte, che però deve guardarsi dalla tenaglia degli attacchi frontali esterni e delle fibrillazioni interne alla sua stessa coalizione. Sfasciare con leggerezza infelice, per calcolo o per giochi di prestigio, sarebbe imperdonabile.

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