C'è tutta la Ue di oggi, con le sue verità e le sue finzioni, nelle conclusioni raggiunte ieri dal Consiglio Europeo presieduto dal polacco Donald Tusk. Prima l’ottimismo, con l’idea di un’Europa che si rimette in movimento grazie all’intesa sulla difesa comune. Poi il pessimismo, con il poco raggiunto sull’assai più scottante tema del saggio governo comune delle migrazioni. E si vorrebbe non dire prima l’illusione e poi la realtà, anche se dobbiamo ammettere che la tentazione è grande.
Il presidente Tusk ha definito l’accordo sulla difesa europea comune «un passo storico». E Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha usato parole addirittura più alate, definendo la cooperazione militare «la principessa addormentata del Trattato di Lisbona, che ora si sta risvegliando». Le due affermazioni non sono campate in aria. L’accordo, che pure lascia ampio spazio alla discrezionalità dei singoli Paesi, prevede la creazione di battaglioni europei di reazione rapida e la possibilità di un loro dispiegamento in teatri d’operazione esterni ai confini Ue. Viene inoltre istituito un Fondo comune per la difesa con uno stanziamento iniziale di 90 milioni di euro l’anno che, dal 2020, dovrebbero diventare 500. Altri 500 milioni di euro saranno invece investiti nel biennio 2019-20 nello sviluppo e acquisto di armamenti.
È un primo passo, ma importante. Perché da un lato recupera l’ambizione originaria del processo di unificazione europea, che era di mettere in comune le potenziali ricchezze ma anche di rendere il continente pacifico custodendo in un deposito comune il potenziale distruttivo delle armi. Nel discorso di accettazione del premio Nobel per la Pace, assegnato appunto alla Ue nel 2012, Herman Van Rompuy e Manuel Barroso (presidenti del Consiglio Europeo e della Commissione europea dell’epoca) ricordarono i molti gesti di pace dei leader europei (il cancelliere tedesco Willy Brandt che si inginocchia a Varsavia, Kohl e Mitterrand che si tengono per mano...) ma anche una triste realtà: «Per molti, fortunatamente, la guerra è oramai una eco lontana. Per molti, non certo per tutti. Oggi la situazione non è cambiata, semmai è peggiorata».
Dall’altro lato, questo passo verso la difesa comune europea è anche, e inevitabilmente, il primo passo verso il ridimensionamento delle industrie belliche nazionali. Una volta che la sicurezza del continente sarà garantita da una forza collettiva e collettivamente controllata, come potremo continuare a produrre a vendere ordigni di morte? Con quale giustificazione? Continueremo a dirci che i certi commerci e i certi profitti non c’entrano nulla con le guerre che devastano il nostro estero vicino, dal Nord Africa al Medio Oriente, e che inevitabilmente si traducono poi, oltre che in stragi senza senso, in nuove falle per la sicurezza continentale?
Un passo importante, quindi. Ma a chi lo dobbiamo davvero? All’intima convinzione di noi europei o alla spinta degli eventi esterni? Abbiamo preso questa strada perché ci crediamo o perché dovevamo mandare un segnale a Donald Trump, che vuole alzare il canone per la protezione che ci accorda la Nato a direzione e budget "made in Usa"? Perché non potevamo dare a Theresa May e ai teorici dell’hard Brexit la sensazione di 27 Paesi individualisti e anarchici ogni volta che non si parla di bilanci e sovvenzioni?
La domanda è lecita visto quanto è emerso dal Consiglio sul tema delle migrazioni. La riforma del regolamento di Dublino, che proprio in questi lavori avrebbe dovuto realizzarsi, è ancora rimandata.
Nei soli ultimi due anni la Ue ha ricevuto 2,5 milioni di domande d’asilo il cui onere umanitario (controllo dei flussi, soccorsi, accoglienza) e burocratico (accertamenti, indagini, eventuali rimpatrii) ricade per intero, proprio a causa di tale regolamento, su pochissimi Paesi, con l’Italia in prima fila. La redistribuzione dei richiedenti asilo nei diversi Paesi è un fiasco colossale e gli interventi in Africa per dare sollievo ai Paesi di partenza attendono di essere rifinanziati. Nulla o quasi di fatto, insomma, nonostante l’importanza della questione sia assoluta.
E nonostante tutti abbiano ormai capito che le migrazioni non sono una «emergenza», come un meteorite o uno tsunami, ma un fenomeno strutturale con cui dovremo convivere, che dovremo imparare a gestire senza inutili allarmismi (da quanti anni, ormai, sentiamo parlare di una «invasione» che non avviene?) e che, anzi, avremmo dovuto affrontare fin dall’inizio come un problema politico e civile, di buona amministrazione della polis, della città degli uomini e delle donne, e non come uno spauracchio che giustificava tutto, dalla costruzione di nuovi muri a un’isteria politico-mediatica che ha solo peggiorato la situazione. Per tutte queste ragioni, quindi, il Consiglio d’Europa appena concluso è stato molto rappresentativo. Tornano alla mente Montale e quel suo verso stupendo: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Forse non è proprio così, forse non è solo così. In ogni caso, o sapremo cambiare per affrontare le sfide o le sfide cambieranno noi. La storia non si ferma, nemmeno per fare un favore alla Ue.