Il principio dell’ecologia integrale ci insegna che tutto è interconnesso. Cogliere gli elementi di interdipendenza tra i vari problemi che siamo chiamati ad affrontare (pandemico, climatico, sociale, di senso del vivere) e trovare soluzioni che siano 'farmaci' efficaci su alcune dimensioni senza effetti collaterali negativi sulle altre è l’imperativo della navigazione tra Scilla e Cariddi dei nostri tempi difficili.
Quest’inizio d’anno è segnato dall’inflazione che preoccupa cittadini e imprese, il riscaldamento globale che continua a crescere (inquietanti gli ultimi dati sulla temperatura media in Europa del satellite Copernicus e dell’ultimo rapporto di 'Nature' sullo scongelamento progressivo del Permafrost nell’Artico). La reazione poco lucida di alcuni è collegare le due cose, sostenendo che la transizione ecologica possa essere la causa dell’inflazione. E invece no. Non è la causa del problema, ne è la soluzione.
Iniziamo per gradi. Abbiamo vissuto negli ultimi decenni un periodo di bassa inflazione con pericoli deflattivi grazie a due fenomeni fondamentali. Il primo è la globalizzazione e la corsa al ribasso delle imprese che per massimizzare i profitti cercano di minimizzare i costi, localizzando la produzione dove i costi del lavoro, ambientali e fiscali sono i più bassi possibili. Impossibile in un sistema globale competitivo alzare i prezzi in queste condizioni.
Il secondo è l’innovazione tecnologica, il cui effetto nei dati della variazione dei prezzi è largamente sottostimato.Mi sono laureato trentacinque anni fa con un computer (il Commodore) che costava più o meno quanto costa un computer oggi, ma la cui potenza non è neanche largamente paragonabile a quelli attuali. Che i prezzi dei beni tecnologici non siano aumentati è un’illusione ottica. Sono in realtà diminuiti in modo spettacolare se corretti per la qualità ovvero, facendo l’esempio dei computer, se calcolati per unità di potenza del microprocessore. E la rivoluzione della rete ci ha messo a disposizione gratuitamente (o quasi) beni che prima pagavamo (lo sviluppo delle fotografie, la disponibilità di video, film, musica tra gli altri). Alcuni di questi effetti sono una tantum, ma altri contribuiscono permanentemente alle dinamiche dei prezzi. Tutto questo fa sì che l’inflazione effettiva sia molto più bassa di quanto percepiamo. Cosa è cambiato, ora? Essenzialmente due cose. L’aumento dei costi di trasporto e di logistica in un mondo dove le restrizioni sanitarie per la pandemia rendono più difficile produrre e spostare merci tra le varie aree del pianeta.
E la fiammata dei prezzi del gas dovuta a fattori in parte temporanei in parte strategici (la Russia non sta partecipando alle aste spot mentre assicura soltanto le forniture di lungo periodo). Nella misura in cui questi due fattori possono essere superati e gli aumenti attuali dei prezzi non si tradurranno in un aumento permanente delle aspettative inflazionistiche che si rifletterà in richieste di aumenti di salari che le incorporano, potremo considerare il fenomeno transitorio e non permanente. E la transizione ecologica? Sarebbe folle trarre dalla situazione attuale la conseguenza che dobbiamo tornare alle fonti fossili. Che sono il problema non la soluzione.
I dati storici sui costi di produzione dell’energia dimostrano che quelli di petrolio e gas sono mediamente invariati (a meno della fiammata attuale verso l’alto del gas), quelli del nucleare in aumento per via di regole più severe sulla sicurezza, mentre quelli della produzione da pannelli fotovoltaici sono mediamente calati del 36% a ogni raddoppio della capacità produttiva (oltre che da 378 a 68 dollari per megawatt tra il 2010 e il 2018 a livello mondiale, anche grazie a una riduzione del costo dei pannelli dai 100 dollari per watt del 1976 agli 0,3 dollari nel 2019). La ragione è semplice. Nel caso delle fonti fossili la materia prima (petrolio e gas) non la produciamo, si paga e chi la vende è in grado in alcuni momenti di operare strategicamente facendo lievitare i prezzi (il comportamento della Russia in questi ultimi mesi assomiglia per certi versi a quello dell’Opec degli anni 70).
Nel caso delle rinnovabili la materia prima (vento, sole) non si paga e le economie di scala, il progresso tecnologico e l’«imparar facendo » (learning by doing) fanno continuamente diminuire i prezzi. Questo vuol dire in prospettiva, man mano che la transizione avanza, bollette meno care e costi minori di produzione per le imprese. Senza considerare l’opportunità per cittadini e imprese di diventare prosumer di energia con la nascita delle comunità energetiche su cui la società civile sta lavorando e che le Settimane Sociali dei cattolici italiani hanno rilanciato. Il progresso tecnologico e la diminuzione dei prezzi investe, infine, anche il costo delle batterie e la riduzione dei costi di accumulo che rappresentano oggi il problema delle rinnovabili e richiedono un 'mercato delle capacità' con l’ausilio del gas nei momenti in cui la potenza di produzione dalle rinnovabili è bassa. Un camminatore esperto non inciampa nell’ostacolo che ha immediatamente davanti e, al tempo stesso, sa scegliere il sentiero migliore per il cammino presente e futuro. La lezione di questi giorni e lo studio di dinamiche e interdipendenze dovrebbe chiaramente indicare la strada a un Paese ricco di vento, sole e capacità d’innovare che sa cogliere l’occasione del progresso tecnologico e delle attuali emergenze per uscire definitivamente da una storica sudditanza dall’estero in materia di fonti fossili, generando benefici duraturi e permanenti anche in termini di costi e prezzi per famiglie e imprese.