L'esempio libanese, la tenue speranza del primo passo
giovedì 28 novembre 2024

Si è anche festeggiato a Beirut per la tregua che ha messo fine, da mercoledì mattina, ai raid israeliani, mentre a sud Hezbollah cessava gli attacchi contro Israele. Quell’“anche” è doveroso, perché passate poche ore dall’intesa, fragile e piena di incognite, si fanno i conti con le distruzioni e un futuro che sui due lati del confine si annuncia ancora oscuro. Gli sfollati tentano di tornare nei loro paesi e villaggi, dove spesso è rimasto ben poco di abitabile. La stessa capitale è invasa da profughi e le loro condizioni restano molto difficili. Sull’altro versante, i sessantamila cittadini dello Stato ebraico costretti a lasciare le proprie case per i razzi del “Partito di Dio” sciita non riusciranno presto a rientrare e a riprendere una vita tranquilla. Comunque, bisogna festeggiare. Perché la fine dei bombardamenti, dello strazio di combattenti e civili uccisi a migliaia, della tabula rasa di intere zone prese di mira da razzi e bombe è sempre una buona notizia. Ci sono delicati equilibri politici e convenienze immediate dietro questo cessate il fuoco arrivato dopo 13 mesi di violenze e due mesi di invasione dell’esercito di Tel Aviv.

Il premier Netanyahu si è fatto convincere dalle difficoltà dell’avanzata via terra, costosa in termini di vite e di mezzi, e dal colpo durissimo ormai inflitto all’organizzazione politica e militare di Hezbollah, certo non sconfitto ma ampiamente limitato nella sua capacità offensiva. La pressione diplomatica degli Stati Uniti, che ha visto una convergenza tra l’Amministrazione uscente e quella entrante, ha pertanto avuto esito finalmente positivo, favorita probabilmente anche dal mandato di arresto per il leader israeliano della Corte penale dell’Aja. Lo Stato ebraico non può rischiare l’isolamento, soprattutto a livello di forniture belliche, e quindi deve scendere a qualche compromesso (se è vero, per esempio, che la Francia ha potuto giocare un ruolo chiave nelle trattative pro-Libano una volta mutata rotta sulla misura cautelare emessa dalla Cpi). La speranza è che le armi possano tacere anche nella Gaza dove la tragedia umanitaria ha raggiunto livelli spaventosi, e Hamas risulta più disarticolata del movimento suo alleato, che il defunto Nasrallah aveva schierato contro Israele in seguito al pogrom del 7 ottobre. Un obiettivo, quello della tregua, che pare ancora lontano, sebbene sia volontà comune di Biden e Trump presentarsi al passaggio dei poteri il 20 gennaio con un Medio Oriente senza guerre guerreggiate. Servirebbe però una strategia di più lungo respiro, che continua a mancare in tutti gli attori regionali. Tel Aviv ha sperimentato che non può reggere conflitti su tanti fronti troppo a lungo, benché conservi una superiorità netta, dimostrata in questi mesi. In questo senso, l’Iran resta la vera minaccia.

Un’America ancora più determinata alla linea dura con il presidente eletto potrebbe avere indotto Teheran ( burattinaio di Hezbollah) ad accettare il cessate il fuoco, per non esporre l’alleato a una débâcle totale e in attesa di capire l’evolversi dello scenario regionale. È probabile che gli ayatollah, cinicamente, non abbiano fretta di chiudere la ferita palestinese, mentre Netanyahu è tentato di aspettare Trump per ottenere il via libera, chiesto dall’estrema destra del suo governo, a occupazione a tempo indeterminato e insediamenti nella Striscia. L’obiettivo principale della Casa Bianca sembra quello di allargare gli accordi di Abramo all’Arabia Saudita, per saldare un’alleanza islamicosunnita che tenga a bada la mezzaluna sciita ostile a Israele e all’Occidente. Raggiunto quel risultato, l’isolazionismo del nuovo corso statunitense lascerebbe ad altri il tema del futuro di Gaza. Qui latita però l’Europa, che almeno sul fronte libanese potrà essere parte significativa come garante e spina dorsale del contingente Unifil, chiamato a fare rispettare l’accordo appena siglato.

La striminzita maggioranza che ieri ha dato il via libera alla Commissione Von der Leyen bis non promette unità di intenti fra i Ventisette né grande forza diplomatica dell’Unione. Servirebbe un atteggiamento più propositivo e un’iniziativa coraggiosa per portare pace in Palestina. Non si può tuttavia dimenticare che il risiko strategico di questi mesi ha un versante, apparentemente non connesso eppure rilevante, in Ucraina. Il presidente russo Putin ha di fatto costruito con la Cina un asse che passa per Iran, Yemen lato Houti e Corea del Nord. Non a caso combattenti mediorientali sono oggi al fianco delle truppe di Mosca opposte a quelle di Kiev. Vedremo presto se questa grande partita può trovare una fase più ampia di negoziato a partire dall’esempio libanese, o se la logica della forza pura tornerà a prevalere.

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