Messa così, «Prima i nostri», la questione aveva un esito scontato. E infatti il referendum promosso nel Canton Ticino dall’Unione democratica di centro, in Svizzera il più votato (29,4% alle elezioni del 2015) e a dispetto del nome il più radicale dei partiti, è finito come doveva finire: 58% di consensi alla proposta di privilegiare, al momento di un’assunzione, i lavoratori locali rispetto ai lavoratori che vengono da fuori. Nel caso specifico, agli italiani che ogni giorno attraversano il confine, i cosiddetti 'frontalieri'. Il risultato, peraltro, è arrivato tutt’altro che inatteso. Due anni fa, sempre su proposta dell’Udc, si tenne a livello nazionale un’altra consultazione non solo per limitare l’immigrazione (50,3% di sì, che arrivarono però al 70% in Ticino) ma anche per stabilire «tetti massimi annuali… per gli stranieri che esercitano sul territorio svizzero un’attività lucrativa». Tetti che, specificava la proposta Udc, «devono comprendere anche i frontalieri». Svizzeri egoisti e razzisti, quindi? Calma, perché anche questo voto ha degli angoli che vale la pena esplorare. Qual è il gruppo che, rispetto a precisi interessi economici, si tirerebbe da parte e direbbe: prima gli altri?
Gli svizzeri che hanno votato hanno quindi reagito com’era logico che reagissero e come chiunque altro avrebbe fatto, soprattutto perché in questo caso di posti di lavoro si discuteva, non di persone in fuga dalla guerra o a rischio di annegamento. Ma quanti ticinesi hanno votato? L’affluenza si è fermata al 45%, segno evidente che il problema non è sentito come a quelli dell’Udc piacerebbe far credere. D’altra parte
tutti sanno che senza i frontalieri, in certi settori strategici come il turismo o la sanità, l’economia della Svizzera andrebbe in sofferenza, proprio come succederebbe in Italia senza gli stranieri. La Svizzera, inoltre, ha una grande tradizione di accoglienza, che è quasi sempre riuscita a superare i rigurgiti isolazionisti, pure non rari. A partire dal Cinquecento, quando cominciarono a insediarsi i protestanti in fuga e la sola Ginevra accordò la cittadinanza a 8 mila immigrati, contro le proteste della gilda degli artigiani tessili che temevano la concorrenza in arrivo da fuori. E a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, fu lo scrittore zurighese Max Frisch a scrivere, proprio sui lavoratori italiani, le parole che meglio hanno descritto lo stato d’animo degli svizzeri nei confronti dell’immigrazione: «Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo braccia, sono arrivati uomini. Non divorano il benessere. Anzi, al contrario, sono indispensabili al benessere stesso».
Oggi la Svizzera ha un 30% di stranieri sulla popolazione residente (in Europa solo il Lussemburgo la supera, con il 43%) e gode ancora, anche grazie a questo particolare equilibrio, di un notevole benessere. In più, come molti hanno fatto notare, il referendum aveva valore puramente consultivo, le norme sui lavoratori stranieri (il voto del 2014 dava tre anni di tempo per modificarle) sono ancora in discussione al Parlamento nazionale e, a dispetto degli auspici dei dirigenti dell’Udc, il parere dell’Unione Europea, e il concreto interesse della Svizzera a trovare con essa un buon accordo, avrà una qualche influenza anche sulle faccende ticinesi. Se proprio si tratta di suonare un allarme, varrà la pena di farlo per altri riflessi. Per esempio, l’idea nefasta e ridicola che, di fronte a un problema, basti chiudersi in casa per mettersi al riparo. L’esempio della Ue, in cui ognuno dei membri ha sprangato la porta fino a favorire la Brexit e a rischiare la disgregazione dell’Unione stessa, a quanto pare non è bastato. Tutti proseguono con i loro piccoli muri e i loro piccoli referendum. Di politica e di provvedimenti seri, presi per risolvere e non per scaricare sulle prossime generazioni, non parla più nessuno. E a proposito di referendum. È vero che questo istituto di democrazia diretta in Svizzera ha storia e applicazione particolari. Ed è ancor più vero che il parere della gente deve poter contare. Ma anche qui: i politici che ci stanno a fare? Possibile che tutto debba essere scaricato sulle spalle di cittadini che spesso sanno poco di ciò su cui devono decidere (proprio com’è stato nel Regno Unito con la Brexit) o che, come nel caso del fresco referendum ticinese, decidono di non decidere e non vanno a votare?