Quando due anni e mezzo fa Matteo Renzi è diventato capo del governo, una buona parte del Paese – non solo e non necessariamente orientata politicamente verso il centrosinistra – ha creduto davvero nella possibilità di aprire una stagione nuova. Di riprendere il sentiero della crescita, interrotto ormai da molto tempo, trovando una nuova sintesi tra sviluppo e democrazia. Il referendum sulla riforma costituzionale rappresenta una brusca interruzione di quel percorso. Che può mandare un’altra volta il Paese fuori strada. Eppure, come spesso capita nella vita, non è detto che da questi giorni difficili debbano necessariamente derivare disastri: se si userà saggezza potrebbe accadere, al contrario, che questo passaggio serva ad aggiustare il percorso iniziato, sanandolo dai suoi limiti e dalle sue contraddizioni. La lettura del voto di domenica dice con chiarezza che la bocciatura (diffusa) della riforma è stata più netta nelle regioni del Sud e tra i giovani. In quei gruppi, cioè, nei quali i benefici della leggera ripresa del Pil non si sono fatti sentire. La verità è che la cronicizzazione del disagio ha ormai raggiunto livelli tali da portare molti a ritenere che senza una discontinuità più drastica nulla di buono possa più accadere nella propria vita.
È la profondità di questo malcontento ciò che si fatica a riconoscere: chi è rimasto indietro rifiuta ormai l’immaginario degli ultimi decenni – per il quale la crescita avrebbe comunque portato benefici a tutti. In primo luogo perché, dopo tante promesse, si è convinti che una crescita molto sostenuta non possa più tornare; e, in secondo luogo, perché si è scettici sul fatto che la propria condizione possa effettivamente trarre qualche beneficio da una eventuale ripresa. Per questo, una riforma presentata come uno strumento per modernizzare l’Italia, per farla tornare a correre e renderla competitiva, è stata rifiutata così clamorosamente. Come a dire che, per molti elettori, la via scelta da Renzi per dar seguito all’investitura del 2014 non è quella giusta. Al di là di tutte le strumentalizzazioni politiche, il voto popolare va ascoltato con attenzione e con umiltà. Non perché la maggioranza abbia sempre ragione. Ma perché le urne di domenica rivelano le domande a cui la politica deve cercare di dare risposta. Come con la Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Usa, così il referendum italiano dice che l’immaginario liberista della crescita ottenuta via efficientamento e liberalizzazione non convince più. Pur senza avere idea di quello che si deve fare, l’elettore intuisce che c’è bisogno di costruire un equilibrio diverso per mediare tra le esigenze della modernizzazione e quelle della vita concreta delle persone e delle comunità. Obiettivo possibile, se si prova a costruire un nuovo legame sociale, che – nel porre limiti agli eccessi della ipermodernità – rifondi le condizioni e le ragioni dello stare insieme.
L’ambivalenza contenuta in tale domanda è evidente. Il limite, infatti, può facilmente tramutarsi in muro; la solidarietà in chiusura; il bisogno di integrazione in ricerca del capro espiatorio. E, cosa ancora più preoccupante, il legame sociale in vincolo leaderistico con un padre-padrone a cui demandare i tanti problemi che assillano la nostra libertà. Sta, allora, a una classe dirigente all’altezza della situazione tentare una interpretazione adeguata del voto popolare. Depurato da tutte le scorie dello scontro politico, esso risuona come un invito ad avviare un percorso di modernizzazione più equilibrato che, ricomponendo la relazione tra economia e società, abbia l’ambizione di garantire una crescita più inclusiva e rispettosa delle esigenze di tutti. Da questo punto di vista, l’Italia come le altre democrazie avanzate, si trova in un passaggio molto delicato. Dal quale si può precipitare verso situazioni ancora più complicate, ma dal quale si può anche uscire a testa alta, cambiando in meglio e non in peggio.
Anche per Renzi e la sua leadership, dopo la secca sconfitta referendaria del 4 dicembre e al netto degli scontri di palazzo, la questione si gioca tutta qui. Se vuole essere fedele alla sua parte migliore – che in qualche momento ha saputo mostrare e che il Paese ha apprezzato – si dia il tempo di preparare un progetto serio e soprattutto libero dalle influenze del passato. Lasci perdere l’idea di rinverdire i fasti, ormai lontanissimi, di Tony Blair. Nella fase storica in cui ci troviamo, l’umore popolare è molto diverso. Ed è per questo che ci vuole una narrazione nuova e un’azione conseguente che, senza negare le difficoltà, restituisca un’idea di futuro. Ciò significa indicare al Paese come si fa a tradurre in politiche quello che tantissimi ormai intuiscono: e cioè che "nessuno può salvarsi da solo"; che la sfida del futuro deve riguardare e impegnarci insieme, coralmente; che per navigare nei mari del XXI secolo occorre costruire una imbarcazione robusta e giusta, e in cui ci sia spazio per tutti; che il fine della crescita non può essere altro che il benessere delle persone e delle comunità. Se la risposta dovesse essere questa, il trauma del referendum potrebbe alla fine rivelarsi salutare. Per il premier presto dimissionario, e non solo per lui. Speriamo.
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